Alessandro Rosselli – (I fiori del Tibisco)

Dante Marianacci, I fiori del Tibisco, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 120, Euro 6,00-

Con il suo secondo romanzo, Dante Marianacci ci offre un’opera indirettamente autobiografica: non a caso il protagonista, Giorgio, condivide il destino di vita e di cultura del suo autore.
Ma, al di là di questo semplice dato di partenza, che potrebbe indurre a facili, pericolosi, ingiusti e, soprattutto, ingiustificati apparentamenti che rischierebbero, poi, di ridurre il testo ad un puro autobiografismo che, a sua volta, potrebbe correre il serio rischio dell’autocitazione, il romanzo si presenta e si impone come una prosa di carattere estrememente lirico che, se si dovesse tentarne una classificazione in un genere letterario, potrebbe ascriversi senza alcun dubbio al realismo poetico.
Ma, se ancora una volta si vuole andare al di là di queste classificazioni, ci si accorge che il libro di Marianacci si pone fin dall’inizio – e qui, a parere di chi scrive, sta tutto il suo interesse e anche, se è consentito dirlo, il suo fascino – come un’opera il cui registro è soprattutto quello della memoria, che però non è mai univoca: infatti, invano se ne cercherebbe nel libro una dimensione univoca, se si volesse, sbagliando, dimenticare che in tutto il testo essa ha un duplice valore poiché, se è legata al passato, ha anche un registro tutto volto al presente.
Fra passato e presente, e nel loro continuo tormnare ed avvicendarsi, quindi, può essere collocata tutta la narrazione, che ci parla di un uomo in profonda crisi esistenziale, Giorgio, che lavora per il Ministero degli Esteri italiano e, come il suo autore, è stato in altri paesi ( fra cui l’Irlanda) prima di venire in Ungheria.
La sua crisi non è però solo di carattere personale e umano, ma anche – si potrebbe dire – culturale. Giorgio, infatti, in un momento di pausa dal suo lavoro, nella sua casa in Abruzzo – altro particolare che pare proprio accomunarlo al suo autore – rievoca il suo passato, e certi avvenimenti che lo hanno carartterizzato, per trovarsi – come direbbe Luigi Pirandello – ma, soprattutto- – come pensa chi scrive – per ritrovarsi e, quindi, per ridare un senso alla propria vita.

Proprio per questo motivo, nel proprio lungo viaggio dentro se stesso, il protagonista  cerca una soluzione ai suoi problemi, rievocando il passato di cui fanno parte alcuni personaggi che hanno fatto parte della sua vita (la madre, l’amica d’infanzia Giovina) o che di essa sono ancora, come prima, parte integrante, gradita o sgradita che sia (la moglie Gretta).
Tale rievocazione, però, non pare riuscire a distogliere il protagonista dalla sua dimensione abituale, che sembra essere quella di una solitudine non voluta e neppure cercata, ma realizzatasi nel tempo e nelle cose, cui neppure l’incontro con una giovane donna, Marianna-Meg, riesce a porre fine: infatti, dopo un viaggio in Ungheria che si conclude a Szeged, dove i due conosceranno i fiori del Tibisco cui allude il titolo – cioè gli insetti destinati a morire dopo il loro accoppiamento – , il loro rapporto, che si  può dire appena cominciato come coppia, è destinato a terminare.
Il protagonista ricadrà quindi nella propria solitudine, che però stavolta non pare, a questo punto, essere del tutto negativa: se infatti Giorgio, il protagonista attorno al quale ruotano tutti gli altri personaggi, torna al suo lavoro, il periodo di pausa – e di riflessione – gli è servito senza alcun dubbio a qualcosa: ad interrogarsi, a mettere in discussione se stesso su ciò che è e su quel che fa, cosicché la conclusione della sua vicenda non può assolutamente considerarsi una fine, ma solo ed esclusivamente un nuovo inizio.
Non sappiamo né sapremo mai quali saranno gli sviluppi di questa rinnovata condizione umana del protagonista poiché la narrazione si chiude qui: l’unica cosa certa è che Giorgio, non più da giovane, ha finalmente imparato a ad essere, per così dire, amico della propria solitudin, per la quale non pare proprio più disperarsi e contro la quale non sembra più cercare alcun rimedio poiché con essa ha imparato a convivere. Se, quindi, come diceva Giuseppe Ungaretti, la morte si sconta vivendo, il protagonista del romanzo di Marianacci – che ha molti punti di contatto con il suo autore ma che riesce ben presto a superare gli scogli di un fin troppo facile autobiografismo per divenire personaggio del tutto autonomo – ha imparato questa fondamentale lezione dalla vita e, quindi, può affrontare l’esistenza o, come direbbe Alberto Bevilacqua, l’umana avventura, con occhi nuovi e nuove consapevolezze e prospettive, sapendo benissimo di essere, appunto, ad un nuovo inizio.

Se si vuol trarre, quindi, un bilancio di questo romanzo, esso può definirsi ampiamente positivo poiché, se si volesse rimproverare al libro di essere poco innovativo e di avventurarsi su sentieri già battuti, non si capirebbe fondamentalmente una cosa: che nulla è nuovo o vecchio, ma che l’importante è come questo vecchio o questo nuovo vengono narrati.
E il libro di Dante Marianacci, oltre ad aver superato lo scoglio di un autobiografismo in cui  poteva facilmente cadere, è riuscito a vincere una grande scommessa con se stesso: quella di tener sempre desta l’attenzione del suo lettore e di dargli, come avrebbe detto Roland Barthes, il piacere del testo.
E ciò, in epoca di brutta – se non adirittura bruttissima – letteratura, spesso e volentieri fatta di libri pieni di inutili sperimentalismi comprensibili solo ai loro autori, non è certo poco.

Alessandro Rosselli