Angelo Piero Cappello – (I fiori del Tibisco)

Dante Marianacci, I fiori del Tibisco, Rubbettino, Roma, 2006

Non ricordo dove, ma in passato mi è capitato di leggere una stravagante teoria secondo la quale ogni romanzo potrebbe essere considerato lo sviluppo al quadrato di una poesia. In questo modo, rovesciando gli argomenti, ogni poesia racchiude la radice quadrata di un romanzo. Per quanto pur obiettivamente strampalata, la teoria si applicherebbe alla perfezione al secondo ed ultimo (in ordine di tempo) romanzo a firma di Dante Marianacci, e non per il poetico titolo de I fiori del Tibisco, quanto piuttosto per il nucleo tematico del romanzo stesso.
Giorgio – il protagonista del romanzo in questione – è un uomo di mezza età impegnato in una brillante carriera di dirigente di un Istituto Italiano di Cultura all’estero (Budapest, per l’esattezza, si potrebbe dedurre da alcuni indizi disseminati all’interno del testo nonché dal Tibisco del titolo, fiume che confluisce nel Danubio): ricevimenti d’Ambasciata, impegni di protocollo, riunioni, rappresentanza diplomatica, aerei che partono e arrivano, treni da prendere al volo e correre in ufficio per le ultime firme prima di un importante incontro politico-culturale bilaterale. Insomma, lo stress da super lavoro toglie respiro a Giorgio fino a impedirgli di pensare e riflettere costringendolo ad una solitudine che brucia e incenerisce, annulla o indebolisce la volontà di riflessione e di ripensamento di sé e della dimensione del proprio io schiacciandosi, quest’ultima, contro il presente dell’iperattività e dell’impegno concreto e quotidiano. E allora, Giorgio decide improvvisamente, grazie anche ad un inciampo della salute, di fermare i suoi piedi in corsa, di sospendere la cogenza imperativa del presente e regalarsi una pausa di riflessione: pausa che subito si riempie di memorie e ricordi di un tempo (irrimediabilmente?) perduto molti anni addietro, in luoghi  dove l’infanzia si è svolta a contatto con un mondo declinato per sempre, scomparso sotto il peso di una ingombrante modernità industriale: era il mondo della campagna abruzzese, del piccolo centro di provincia dove ci si conosce per nome e soprannome, dove le feste di famiglia si allargano ai compaesani e dove, all’ombra di qualche albero in fiore, fanciulle e fanciulli provano le prime frenesie del cuore e del sesso.

Memorie che tornano come specchiate in un secchio ricolmo d’acqua prelevata dalla profondità del pozzo della coscienza ed affiorano al presente: ecco, il romanzo è uno squarcio attraverso il quale il protagonista dal suo presente osserva il suo passato, lo guarda con equilibrata e dolce malinconia, ne accarezza alcuni tratti, sorride di altri, mentre altri ancora – quelli, ad esempio, della morte della madre – portano un’ombra di dolore fino alla superficie specchiata della scrittura. Ma sono immagini evanescenti, destinate all’atro fondo del pozzo stesso, non appena il protagonista si accinge a fermarle sulla pagina.
La poesia che potrebbe fare da radice quadrata ai Fiori del Tibisco, un “osso” montaliano cui peraltro allude lo stesso Marianacci, è la seguente:

Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

L’acqua della letteratura, tirata su dal pozzo dei ricordi attraverso la scrittura, è lo specchio ove recuperare la memoria: ma è materia evanescente e Giorgio è costretto, in fine di romanzo, a soccombere alla distanza che, oggi, lo divide da ieri e a tornare al suo affaticato presente. A voler fare una semplice equivalenza, si potrebbe vedere un certo autobiografismo, neppure molto negato dallo stesso autore, tra Giorgio e Dante Marianacci: entrambi dirigenti di Istituti Italiani di Cultura, entrambi in servizio a Budapest, entrambi abruzzesi, entrambi affaticati per il lavoro e con piccoli acciacchi di salute, entrambi dediti alla scrittura come àncora di salvezza dal mondo della professione, entrambi dotati di una intelligenza erratica che li porta a spostarsi fisicamente da un luogo all’altro del mondo, ma restando fermi con gli occhi puntati alla letteratura secondo confini labilissimi che segnano Joyce e Pound, Montale, d’Annunzio e Kafka.

Ma, si diceva, questa sarebbe una (troppo) semplice – e semplicistica – equivalenza, peraltro fondata solo sull’apparenza delle coincidenze tra scrittura e vita dell’autore: in realtà, Giorgio è un personaggio a sé stante, che gode di un suo proprio e specifico profilo, appunto, di personaggio. Intorno a lui ruota – e su di lui si organizza in maniera centripeta – il mondo narrato da Marianacci, ma che è un mondo – proprio come il personaggio intorno al quale gira – artefatto. Varrà la pena di spendere due righe per spiegare il termine: è artefatto il mondo arcaico di cui si narra, come è artefatto ogni romanzo in quanto tale. Le mulattiere del paese, la casa in campagna, i personaggi popolari e d’alta borghesia, gli interni d’ufficio, le memorie (anche quelle private) sono tutte immagini e personaggi che vengono chiaramente ricavati non dalla sola esperienza esistenziale concreta dell’autore, ma soprattutto provengono da altra letteratura, da altri libri letti e assimilati: prima di tutto Il trionfo della morte di d’Annunzio (il cui protagonista, Giorgio Aurispa, non ha in comune col nostro Giorgio solo il tratto onomastico), e poi Il Castello di Kafka e i Dubliners di Joyce. Ma quel che fa de I fiori del Tibisco un mondo artefatto (nel senso migliore del termine, creato proprio artigianalmente come opera d’arte) è la componente linguistica, che è già il tratto più rilevante e più apprezzabile anche del Marianacci poeta. Un linguaggio semplice e piano, ma dall’eleganza morbida di chi ha saputo ben apprezzare le letture dei classici senza farli diventare modelli per una maniera stucchevole; linguaggio che crea il reale, o lo ricrea nella memoria, con lo stesso effetto di un replay sfumato al cinema, un linguaggio fatto di lessico studiato e calibrato, con un ritmo segreto interno che rende la lettura fortemente ritmata e ‘poetica’.
Marianacci, con questo romanzo, conferma un talento naturale per la scrittura, che si risolve, con risultati più che convincenti per noi lettori, sui vari versanti della poesia, della narrativa della saggistica.
Parodiamo Allen: provaci ancora, Dante.

Angelo Piero Cappello