Angelo Piero Cappello – (Signori del vento)

Gli antichi popoli messicani, gli Aztechi, non separavano mai lo spazio dal tempo tanto che il loro calendario prevedeva gruppi o ‘nodi’ temporali dislocati presso i quattro maggiori punti cardinali: acatl , tecpatl , calli , tochtli , e ciò comportava un’idea del movimento che avveniva investendo non solo la dimensione spaziale ma anche quella temporale. E, allo stesso modo, il tempo segnava o scandiva le tappe di un ‘muoversi’ nello spazio.
Mi sembra che questa dimensione, per così dire, ‘duplice’ del viaggio appartenga completamente ai versi di Dante Marianacci; versi che possiedono tutta l’incantevole apparenza della semplicità, come fossero davvero nati e subito “qua e là dispersi sul cruscotto/sui sedili e in altri luoghi”, vergati distrattamente su “biglietti con indecisa grafia/nati in viaggio per altri viaggi” (p. 32). Perché il viaggio è, sì, la parola chiave della poesia di Marianacci, ma si tratta di un viaggio o, meglio, di una tipologia di viaggio affatto particolare: nello spazio, come è d’obbligo, e nel tempo. In tal modo la poesia di Marianacci trova campo aperto nel muoversi tra Pescara e Praga (luoghi cari alla sua vita ed alla sua professione, dunque luoghi tipici divenuti topici nei suoi versi), con la stessa familiarità e confidente scioltezza con cui si muove tra passato e presente, tra futuro possibile e immaginario, tra storia e mito. Dante Marianacci (chi ha la fortuna di conoscerlo personalmente lo sa) viaggia. Sì, viaggia “per” lavoro, perché è Dirigente degli Istituti Italiani di Cultura nel mondo, ma i suoi non sono mai viaggi “di” lavoro; e i suoi versi, che da quel viaggiare nascono e traggono nutrimento, lo stanno a dimostrare. Il “viaggiare” che ispira queste poesie non sembra mai essere distratto dalle cose e dalla memoria delle cose, gli occhi di chi viaggia, attentissimi, stanno lì a guardare il paesaggio e connetterlo all’anima, alla memoria di altri paesaggi, di altre cose, in altri tempi, nel tentativo di innescare quel ‘ click ‘ – o una più moderna e tecnologica “clonazione digitale” – che è alla base della scrittura. Così che nasca dalle cose o dalla memoria delle cose un altro viaggio, il più bello: quello della poesia.

Il Liffey, il Tevere, il Tamigi, il Danubio,
l’Elba, la Senna, la Moldava, la Pescara,
il Dentalo breve dopo il Foro.
………………………………………….
Riprende da qui il viaggio
da queste clonazioni digitali
e mi tengono sveglio la notte
che sempre più si confonde col giorno.

Dopo il silenzio ancora la poesia.

Il viaggio nello spazio, la mobilità assoluta del poeta, sembra producano una sorta di straniata e straniante topografia indifferenziata: vale a dire, il Tevere equivalente all’Elba o la Senna omologa della Pescara. Ma la differenza c’è, e non solo onomastica, agli occhi di quell’attentissimo viaggiatore: la differenza sta proprio nel tempo interiore che accompagna la visione dello spazio. Insomma, la differenza dei luoghi è data dal tempo in cui quegli stessi luoghi, come dire, sono stati ‘vissuti’; come succede quando si rileggono dei testi di poesia a distanza di anni.

Rileggo i miei poeti
e non è la stessa cosa.
…………………….
Sono tornato su quell’albero
……………………………
a guardarmi intorno
e che cosa al posto delle macchie di rossi papaveri
nel campo sterminato di grano maturo
con gli spaventapasseri agghindati da buffoni
che spaventavano gli uomini
e facevano ridere gli uccelli
e il lago delle renelle
dove tutta nuda Giuditta si bagnava?
Un anfratto di spine
un’arida sterpaglia quel luogo è diventato.
Dove sono finiti
i Campos di Castiglia
della mia fanciulla fantasia?

I Campos di Castiglia, forse, non sono mai esistiti; o, forse, non sono mai stati vissuti se non con la fantasia: ma è irrilevante ai fini della poesia. E’ questa, mi sembra, la cifra segreta dei versi di Marianacci: l’assoluta indifferenza tra il reale e l’irreale, tra il viaggio nello spazio ed il viaggio nel tempo, percorsi da cui si può sempre tornare e, una volta tornati, ripartire. Questo, però, non faccia pensare ad una sorta di circolarità metaforica, ad un ciclo di eterno ritorno alle fonti, ad una specie di magico anello che racchiuda le due dimensioni spazio/tempo dentro il viluppo profondo dell’anima: no, l’itinerario metaforico di Marianacci, semmai, appare segnato da una serie di tracce che sembrano svanire nello spazio (“Lassù tra gli artigli della mammina /ho dimenticato qualcosa/ che ora mi manca / forse un vecchio cuore…”, pag. 40) ma che, invece, riapprodano alla realtà nei termini di una epifania del mito (“Dai piedistalli di marmo/si muovono le statue/e tornano indietro di millenni/efebi pettoruti…/appena tornati/dalla Grecia antica/ben addestrati dai paidotribai…”, pag. 58), secondo luminose e liriche traiettorie che accompagnano, disegnandoli, i viaggi del Poeta.

Traiettorie liriche. Potrebbe essere questo il titolo di una silloge che ripercorra il viaggio poetico di Marianacci, il suo itinerario, il suo viaggio più vero e sentito, quello della scrittura poetica. Dalla prima raccolta di versi Come il gabbiano , nel 1970, a Un viaggio per Tiresia , 1975, a Graffiti o a Maschere e fortilizi , Cronachette praghesi , I ritorni di Odysseus e fino a quest’ultimo Signori del vento , l’intero tragitto del Poeta, vergato nei versi, sembra svolgersi proprio sotto la specie del canto, della profonda vocazione lirica. Una vocazione che apprende dalla tradizione italiana, ma che non disdegna affatto – come potrebbe farlo, un viandante del tempo e dello spazio! – gli ammiccamenti a elegie lontane, ad echi di culture e lingue diverse che vanno da d’Annunzio a Ovidio (conterranei, bisogna sottolinearlo, di Dante Marianacci), da Eliot a Montale, da Petrarca a Borges, da Leopardi a Goethe o a Machado, quasi a significare un programmatico e ben riuscito sincretismo culturale; più che ammiccamenti, poi, se si pensa alla versione bilingue italiano/inglese di questa raccolta. Una scelta, quella della doppia lingua, affatto peregrina o irrelata a quel che si diceva sopra del ‘viaggio’ continuo di Dante Marianacci. Il suo orecchio musicale non poteva non scovare, negli argentei suoni di quella sua seconda lingua, l’inglese, assonanze e rime imperfette che sviluppano i suoni in traiettorie:

All night long I read and read again
Ovid’s poems of love
Nestled in the great bed
………………………………………………,

dove le segrete assonanze tra long e love o i richiami sonori di read e bed non devono essere sfuggiti all’orecchio del traduttore né a quello, uso all’inglese, del Poeta che con il traduttore ha lavorato. Come dire, ciò che più importa al Poeta è varcare la soglia del linguaggio verbale (non importa giovandosi di quale lingua) per approdare al mondo simbolico e metaforico dei suoni delle parole:

Forse Wagner aveva ragione.
Tra il musico ed il poeta
incolmabile a volte
è la distanza
e la forma della melodia
è più ricca di quella
della sinfonia.
Immergiti dunque senza timore
nel pieno oceano
della tua musica.
Ed io ti condurrò per mano
e darò ordine al tuo caos
perché il tutto non è più tutto
in questo mondo di mitografi
e usurpatori
di Sigfridi e di Re Pescatori
di faustini e burattini
di nobel senza inchini.

E’ questo il prodigio della parola che si fa musica nel verso, e tutto trasforma ciò che tocca: il presente ed il passato o il futuro immaginato, il mito, oppure semplici volti di donna o profili di colline di altri luoghi, segni di altri passaggi e paesaggi, varcano il limite del linguaggio per farsi onda musicale e lirica, come una favola bella che, consapevoli, “ieri c’illuse, oggi c’illude”. Di quella favola, il Poeta, ne assapora intera la leggerezza pur senza mai perdere di vista l’ombra di malinconico disincanto che quella leggerezza porta con sé. E allora sì che il viaggio si fa esperienza completa e complessa della realtà, secondo quelle relazioni, almeno, che la robusta capacità poietica di Marianacci intesse con essa; ovvero, un gioco di rimbalzi tra realtà e immaginazione che si scioglie in canto, in poesia, gioco apparentemente lieve ed aereo (qui la calibratissima abilità del Poeta) ma sostanzialmente consapevole traduzione in musica di un profondo senso di non appartenenza. Nulla, insomma, sembra dire Marianacci, ci appartiene davvero, nemmeno quel viaggio che pure abbiamo costruito nel tempo, il viaggio della vita (signori, sì, ma di qualcosa che non possiamo possedere: del vento). Sono piuttosto fotogrammi, immagini scollegate, che la nostra mente tesse insieme a bilanciare la morte con la vita (“In fondo la morte è solo/un ingrediente/nella sterminata dolcezza/della vita”, pag. 82). E’ per questo che il nostro viaggio – così come fa e dice il nostro viaggiatore – può avere una sola fine ed una sola verità cui approdare: la magica ingenuità mitopoietica della nostra fanciullezza.
Il signore del vento, infine, scopre tutta l’inconsistenza della propria signoria, delle proprie certezze, delle proprie conoscenze, s’immerge tutto nella sua profondissima inappartenenza e scopre la sua più intima verità del mondo:

In fondo, pensavo,
la mia verità del mondo è ancora lì
nei giochi dell’infanzia e dei sogni.

Oggi e Domani….

                                                                  Angelo Piero Cappello