Dacia Maraini – (I cloni di Mr Bond)

Il lungo viaggio di Federico

Perché le mogli si trasformano in nemiche? Perché l’amicizia si tramuta in solitudine? Perché il corpo tende a rivoltarsi contro la nostra volontà? Perché uno si ritrova a leggere Topolino anziché Balzac? Perché a clonare un grande attore ci si perde sempre? Perché gli amori dell’adolescenza si fissano nella nostra memoria con tanta pervicace ossessione? Perché la via di casa sembra sempre la più corta e la più attraente? Queste sono alcune delle domande che Federico, l’indolente, ironico e poetico personaggio di questo libro, si pone mano mano che procede nella conoscenza di sé e del mondo. Le risposte non vengono su facilmente: c’è un intoppo nel processo di maturazione, come una crisalide che fatichi a uscire dalla sua vecchia pelle. E il bambino nel bozzolo incrinato continua ossessivamente a chiedersi perché e perché.
In uno dei capitoli più felici, intitolato “La cyclette”, l’autore ci racconta di Federico che, come in un film di Moretti, si trova nei guai fisici. Credeva di stare bene e invece viene travolto da una tachicardia allarmante. Una stanchezza latente, che per anni ha sopportato come naturale, diviene improvvisamente così ossessiva da rallentargli pesantemente i ritmi di lavoro. Gli capita di provare improvvisi sensi di smarrimento, “il pensiero s’annebbiava e quasi non riusciva ad andare avanti”. Saranno le sigarette? Si chiede allarmato, sarà la stanchezza? Da quel momento comincia l’odissea dei medici, degli ospedali, delle analisi, delle diagnosi e delle controdiagnosi. I medici però non trovano niente di grave (solo una “stanchezza nervosa associata a ipocondria”: questa è la diagnosi finale) e salvo la proibizione assoluta di continuare a fumare sessanta sigarette al giorno, non gli prescrivono particolari medicine. Federico comincia ad assomigliare sempre più ad un personaggio di Gogol, infelice, rabbioso con se stesso e il mondo, eppure pieno di buoni propositi. Da domani, si dice, smetterò di fumare, farò ginnastica tutte le mattine, mi riposerò, mangerò solo cose salutari, non leggerò nemmeno i classici, niente Kafka, niente Joyce, mi dedicherò solo ai giornaletti di Topolino che sono la lettura preferita di mio figlio.
Ma una volta sulla bicicletta immobile, in mancanza di una strada, di un paesaggio a cui dedicare la propria attenzione, cosa fa Federico? Si lascia andare ai ricordi che affluiscono abbondanti e teneri nel cervello messo a riposo. Ed ecco comparire dal passato la severa e intransigente figura del maestro delle elementari: un uomo “mingherlino e sempre ben vestito che sembrava un gentiluomo di campagna… Aveva modi piuttosto bruschi ed autoritari che gli derivavano dai suoi trascorsi di capitano della milizia”. Il maestro, avendo scoperto che il piccolo Federico era mancino, lo costringe a stringere in pugno la penna con la destra. Ma l’operazione non riesce bene, così Federico, per accontentare il maestro, si torce sulla sedia e si obbliga a tenere a freno la sinistra appoggiandovi sopra la testa. Questa pratica porterà, negli anni, a sviluppare una scoliosi da cui non si libererà nemmeno da adulto: “Una spalla pendeva tutta da una parte. Nessuno si era accorto della cosa, nemmeno il maestro. I genitori erano troppo occupati…”. Se ne accorge solo il sarto quando va per confezionargli l’abito della prima comunione, e vede che, per quando aggiusti e tiri, la giacca continua a pendergli da una parte.

È chiaro che Federico, dopo i primi entusiasmi e soprattutto dopo avere ricevuto una lettera insultante dalla moglie, lascerà impolverare la cyclette e tornerà a fumare le sue sessanta sigarette al giorno, sempre brontolando contro se stesso e contro la sorte. Più che mai in questo capitolo trapela l’umorismo venato di tristezza di cui è impregnato questo bel libro scritto in età adulta da un dotto diplomatico amante delle lettere.
L’ultimo capitolo, il più bello per me, si chiama “Il ritorno a casa”. La memoria (forse siamo ancora sulla cyclette dell’altro capitolo) ci porta in Abruzzo, dalle parti della Majella, lì dove Federico ritrova un se stesso lontano e dimenticato. Ma la memoria dei nomi è spietata e sta lì a ricordargli quel ragazzo fiducioso che è stato e non è più: Piana Grande, Colle Querceto, Contrada Santa Maria, Contrada San’Antonio, Contrada San Pietro, Vallecupa, il Tratturo. “Tutto gli sembrava diverso, cambiato”, eppure “ogni casa, ogni angolo del paese, aveva una storia da raccontargli”. E quando meno se lo aspetta, ecco che Federico incontra gli spettri di famiglia. Come quello del padre, che da sopra la spalla gli lancia un sorriso complice.
“Suo padre era in ginocchio e stava facendo un innesto di pesco ad un arboscello di prugno”. La descrizione di questa semplice ma nello stesso tempo complicata operazione ricorda certe pagine di Pirandello narratore, rese limpide e tenere dall’affetto. Ad un certo momento il padre si volta verso di lui e, proprio citando il grande scrittore siciliano, gli dice:”Il piacere dell’onestà, non dimenticarlo mai”. Federico sorride per compiacerlo, senza capire. Solo dopo, con la memoria delle parole, ritorna la memoria del gesto lento e preciso del genitore. Cosa voleva dire suo padre ? Si riferiva alla riscossa di Baldovino, il protagonista del “Piacere dell’onestà”, costretto a dimostrare la propria onestà attraverso la disonestà di un matrimonio per conto terzi? Oppure voleva riferirsi, attraverso quel titolo simbolico, ad una pratica di vita da cui non discostarsi mai? E cosa è rimasto di quell’uomo integro e misterioso che è stato il padre di Federico? Certamente l’alberello innestato che nel tempo è cresciuto, si è fatto adulto, ha messo foglie e fiori. Che sia questo la risposta alle angosciate domande dell’autore?

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