Elena Guerra – (I fiori del Tibisco)

I fiori del Tibisco

La nostalgia, dicevano i greci, è un sentimento di perdita che causa un dolore struggente e profondo, accompagnato dal desiderio per ciò che abbiamo avuto e non possediamo più o per quello che agogniamo e non potremo mai avere.
Dunque una mano tesa che cerca invano di afferrare le cose lasciate dietro di sé e un muso proteso verso qualcosa che si proietta davanti a lui e pare   irraggiungibile.
Tra quella mano e quel muso sta “I fiori del Tibisco”- romanzo breve e denso come pochi -, che costruisce la figura del protagonista, Giorgio, innestandola all’interno di questo buco nero della volontà di potenza e la consegna al lettore offrendogli il ritratto di un uomo dalla dolente evanescenza.
Sa bene il suo autore, Dante Mariannacci, come sia più importante alludere che dire. La potenza evocatrice della storia umana di Giorgio è racchiusa in ciò che tace, anche forse a se stesso.
In quello che il suo sguardo sorvola e dimentica si  impiglia, suo malgrado, la trama sotterranea e sottile della sua esistenza, fino allo strappo inevitabile, con l’ordine apparente della quotidianità.
Di quella forza dirompente ostinata e cieca non ci  è dato sapere. Tramuta il titolo del libro in eco poetica, mette in guardia il lettore presidiando le parole che verranno e diviene l’epigrafe dello scrittore ungherese Sàndor Petrofi che apre, non a caso, la storia:
“Come un pazzo che ha infranto le catene il Tibisco irrompeva sul piano: urlava, mugghiava, spezzava le dighe; voleva divorare la terra”.
E deve essere pazzo Giorgio quando, all’apice di una rapida carriera diplomatica, costruita con impegno e rigore, che lo ha portato in diverse città d’Europa, inverte la rotta e torna al suo paese d’origine, nella campagna italiana del centro sud.
Come il Tibisco che, nella corsa impetuosa dai Carpazi al Danubio, attraversa l’Europa centro orientale cambiando direzione e aspetto e scorre placido nascondendo la potenza distruttrice di un attimo dopo, così, a un certo punto della vita del protagonista, scatta un codice rosso. In maniera impercettibile quanto inesorabile si rompono i legami con l’apparente normalità del giorno e, come grandi medaglioni ipnotici, affiorano ricordi addormentati in un angolo della memoria, forse quegli stessi che l’anima, prudente, conserva gelosamente nelle proprie cantine.
Appaiono e scompaiono volti di donna e scorci di città, frammenti di storie che rimbalzano dentro il presente di Giorgio, lo rimandano alla poesia semplice di un passato contadino, ai luoghi dell’infanzia, così liberi e limpidi solo quando non sono artefatti dalla contemplazione composta dell’intellettuale.
E  tra le pieghe del narrare il mare è il mare, il cardo è il cardo, il sedere di una donna è il sedere di una donna. Solo quando il desiderio entrerà pericolosamente nella metafora darà alla vita altre destinazioni rispetto a quello sguardo bramoso e ingenuo.
Così gli angoli della terra non sono mai casa, ma pezzetti di vita che l’autore compone per far danzare al suo protagonista un minuetto di cortese imitazione: del sapere, della conservazione
dell’integrità dello spirito e del corpo, della creatività, dell’arte poetica, dell’arte della menzogna, dell’arte di amare…
E un giorno la notte si confonde con il giorno e Giorgio deve aver detto basta. Non sappiamo “come” e neppure “cosa sia successo”. Neppure quanto forte fosse quell’urlo.
L’autore si è ben guardato dal ridurre a racconto la folle intenzionalità del desiderio, che non ha divieti e si libera prepotente dallo sguardo fustigante delle convenzioni e delle morali pur di andare verso quel compimento che è anche la  propria sconfitta.
Ha lasciato ciascuno dei suoi lettori alla periferia di  ogni capitolo, che per inciso sono diciotto e non hanno titolo (anche questo dobbiamo fare? Dare un nome alle tappe del viaggio interiore di uno sconosciuto? ); ha evitato con cura colpi di teatro e i colpi al cuore, ma è riuscito, il cuore, a stringerlo in una morsa lieve e inesorabile, cercando per sé solo una via di fuga. Non ci ha parlato della storia di Giorgio, ma indirettamente di come, forse, la nostalgia si superi con lo scatto e l’energia di una nuova creazione, perché la nostalgia è un sentimento perdente, che vale come mero transito verso un’altra avventura.

Elena Guerra