Ennio Bispuri – (Signori del vento)

I versi di Dante Marianacci, contenuti nella raccolta Signori del vento (Edizioni Noubs, Chieti, 2002), raccontano di una realtà che appare sempre scissa e ferita nelle sue opposizioni fondamentali, quali la giovinezza e la vecchiaia, la vita e la morte, la veglia e il sogno, la gioia e il dolore, il passato e il presente, l’esteriorità e l’interiorità ecc., e finiscono per diventare la descrizione minuziosa, severamente implacabile, quasi autoptica, di quella coscienza infelice, da Hegel posta come il segno della inconciliabilità tra l’Essere e la Ragione.
Ma gli stessi versi colpiscono anche per il particolare timbro e per la forza allusiva costruita su ascendenze arcaiche, che diventano echi di un mondo evocato attraverso una raffinata elebaorazione linguistica e una ricerca giuocata sull’interruzione brusca, sulla pausa prolungata e su una forte tendenza a costruire un verso denso di spessore materico.
L’opera poetica di Marianacci si struttura dunque su una dimensione che sembra ignorare il tempo e spinge le parole verso una sintesi radicale, che, quasi privandole del loro valore semantico, le riduce a relitti segnici provenienti da un’altra dimensione spazio-temporale.
È in questa vocazione a superare il dato lessicale d’uso che risiede a mio avviso la forza e la prima qualità della poesia di Marianacci, che si esprime in una costante tensione a svuotare del significato corrente le parole, per inserirle nel linguaggio evocativo e allusivo dell’Inconscio.
I versi di Marianacci, che sembrano lontani dallo scorrere impetuoso della Storia, sono invece immersi in un Divenire che tutto travolge: evocano, accennano, fissano e scolpiscono il frammento, ma non ci fanno mai vedere l’Intero, verso il quale tuttavia aspirano.
Questo intreccio inconciliabile tra Eternità e Frammento, a mio avviso, muove l’intera ispirazione di Marianacci, cantore della luce e delle tenebre.
In alcune liriche volutamente frammentarie, Marianacci ci parla della continuità del presente, della drammaticità dell’esistenza, dell’angoscia con cui l’uomo contemporaneo guarda al proprio futuro e al futuro del mondo.
Altre volte sembra preferire la sospensione del giudizio sulla realtà che fugge e non si lascia decifrare, ma proprio questo silenzio illumina per contrasto tutte le contraddizioni e le conflittualità di cui è gravido il presente.
Gli squarci lirici sono come tagli o ferite inferte sulla pagina, come lampi in sequenza, che illuminano l’oscurità e penetrano per un attimo nell’ambigua dimensione del sogno.
Le emozioni sono così portate ad uno stato di purezza assoluta, fin quasi ad essere private dello stesso soggetto che le prova e le comunica.
L’io sembra aver smarrito per Marianacci il suo senso ultimo come fondamento della soggettività, come garanzia della razionalità del conoscere e del sentire, per ridursi al succedersi di singoli istanti emozionali.
Come per Nietzsche, che definisce l’io una seduzione della grammatica, il soggetto, nella poesia di Marianacci si riduce alle sue stesse produzioni emotive e così si smarrisce o si nasconde.
Quello che dunque appare al lettore è l’isolamento definitivo e irreversibile dell’io, sopraffatto dall’esuberanza produttiva e dall’eccesso di un’attività ipertrofica che finisce, proprio come accade al più volte evocato Crono, per divorare quello che incessantemente genera.
I versi di Marianacci alludono continuamente a un mondo immobile, arcaico, fisso nella storia perché reso immutabile dal ricordo: un mondo che sembra non essere soggetto al divenire. A leggere più attentamente ci si accorge però che proprio quel mondo non è mai contemplato con nostalgico compiacimento, con la malinconia della rimembranza o con lo sguardo rivolto ad un’età dell’oro che non è mai esistita. Quel mondo, che è poi la realtà vissuta e descritta, è collocato da Marianacci dentro il processo furioso e impetuoso del divenire, che tutto travolge e devasta.

Il centro della Poetica di Marianacci, il nucleo più profondo e più nascosto sembra essere dunque questo contrasto, questo confronto e questo collegamento costante tra un Essere senza tempo, seducente e ammaliatore, che appare incontaminato nella sua fissità e un Divenire che non si lascia mai definire.
Forse per questo l’insistenza esplicitamente ungarettiana dei fiumi conduce all’idea stessa del Fiume, come simbolo eracliteo del Divenire (Il fiume s’ingrossa s’ingrossa/Ed è sempre lì a un passo/Dal trasbordare) o a quella del vento (Eravamo i signori del vento), indicato nel titolo, che riecheggia vagamente la canzone di Elton John, Candles in the wind .
Quando è trasferito sul vissuto personale, questo contrasto lacerante tende ad acquietarsi e a risolversi nel mito, molto evidente nella lirica Tra gli artigli della mammina , dove, a fronte dei destini del mondo, il poeta retrocede al ruscelletto ciottoloso dell’infanzia , con la conclusione esplicita In fondo, io pensavo,/La mia verità del mondo è ancora lì/nei giochi dell’infanzia e dei sogni , oppure nella secca e rassegnata rievocazione del Padre in È mesto questo giorno , dove il mistero più profondo e impenetrabile dalla ragione conclude la rievocazione di gesti reiterati che restano senza una spiegazione, ossia dei fatti immobili nel tempo e pertanto eterni e misteriosi.
Così la fissità eroica e intangibile dell’infanzia (il perfetto del passato rispetto all’imperfetto del presente) rimanda ad un piano ulteriore, ad un livello cosmico, nel quale l’intero divenire della storia si scontra con l’immobilità dei sogni collettivi. Gli elementi mitologici, che sono molto presenti in tutta la raccolta, sono sempre evocati come punti di riferimento che impediscono il naufragio, come livelli di fissità eterna, che, sia pure nella favola, rendono il Divenire meno insensato. Così Eurimaco e Crono ne La prima freccia ( Ti senti un Eurimaco pieno di vergogna (…) E ride Crono giubilando …) e in Macondo ( e i diciassette figli/Furono sterminati ad uno ad uno/Come da un Crono invisibile ). Così l’Ippogrifo ne La tua casa ( Fu lì che mi venne/La rivelazione/E nacque il miraggio/Di un lungo viaggio/Sulle ali d’un Ippogrifo alato ), le chimere in Sulle colline innevate del Mondsee ( I brevi accordi del vento/Portano sorrisi di chimere ), ancora le chimere in Sissignore ( Fulgenti, eburnee, algenti,/Stanche echeggiano parole da lontano/Come da albe morte e da chimere ) o le cólte ascendenze del mondo greco, in Da quella veste tua (O tu figlia di Iperione e Theia/Sorella di Elios e di Selene ).
La Poesia di Marianacci è d’altro canto difficile, perché è costruita su accenni, rimandi, allusioni, che contengono frammenti di tutta la Letteratura mondiale, che viene metabolizzata attraverso sempre originali richiami (chiarissimi i rimandi a Whitman, a Borges, a Joyce, a Campana, a Hölderlin e naturalmente a Kafka, ma anche a tantissimi altri). Talora Marianacci costruisce veri e propri dialoghi con Attilio Bertolucci, con Magris, con Wagner, con Oscar Wilde, ma anche con la propria madre morta.
Bella, intelligente e originale è per esempio la riflessione sui rospi in Alle fonti della Pescara , che rimanda esplicitamente al Gregor Samsa de La metamorfosi kafkiana, ma indica, proprio in questo rimando, anche la pietà di uno sguardo umanissimo e la simpatia cosmica del dolore esteso a tutte le creature viventi.

Tale accumulo letterario e cólto non toglie tuttavia alla poesia di Marianacci un fondo straordinario di freschezza e quasi di francescana ingenuità, che è il livello più alto che possa essere raggiunto da un poeta: nutrirsi di tutte le esperienze e restituire le emozioni attraverso la contemplazione del mondo con un occhio pieno di pietas, come se fosse, per il poeta che contempla la Natura , il primo giorno della creazione.
Ma la Natura per Marianacci non è mai un dato esteriore-descrittivo-realistico. Essa è sempre uno stato d’animo, dove i colori, gli odori ecc. non ritraggono veristicamente l’esterno, ma dipingono un paesaggio interiore, ossia l’anima.
In questo senso credo si possa parlare, nella poesia di Marianacci, di un felice residuo di Romanticismo.
La punteggiatura usata da Marianacci contribuisce a dare un ulteriore segno di questo fluire delle cose, di questo sguardo puramente contemplativo. A parte il punto, che conclude i blocchi di pensiero, la virgola è quasi bandita. Le ho contate, le virgole: se si eccettuano le otto iniziali, che contengono un elenco di fiumi, ce ne sono soltanto trentaquattro in tutta la raccolta di trentotto poesie. E il poeta che non ama la virgola non ama nemmeno la sistemazione razionale del mondo e dell’esistenza umana. È il fluire stesso della realtà che appaga l’ispirazione di Marianacci, su cui si aggiungono solo frammenti di pensiero.
Marianacci scrive con una grande capacità di sintesi, che è forse l’aspetto stilistico più vistoso della sua poetica (cito come esempio solo quattro passaggi, che sono molto belli: sostare agli argini degli addii (in È un transito pesante), vanno verso la collina/Dove s’impenna il verde (in Il Signore dei tarocchi) e adultera è l’anima (in La proibita voluttà), In fondo la morte è solo/Un ingrediente/nella sterminata dolcezza/Della vita (in Altre illuminazioni).
Ma esiste anche un aspetto parodistico e raffinato nella poesia di Marianacci, che rimanda ad alcune famose liriche del Trecento, rielaborate e frammentate, che è una forma ironica e felice di dialogo con la storia del costume e della Letteratura che la riflette.
È evidente tuttavia che la storia, anche se si lascia accarezzare , rimane sempre impenetrabile.
Lo stesso vale per alcune costruzioni poetiche che in realtà nascondono degli epigrammi, che anzi sono dei veri e propri epigrammi alla Marziale, come Nella città di Molly , Nevicava nel Donegal , Tra il musico e il poeta o I Poeti post mortem .
La poesia è intesa da Marianacci, che corre felicemente il rischio della modernità, come racconto, come apologo, come aforisma, con l’io che si mette completamente da parte per dare posto a lui , lei , l oro o, al più, a noi , come ne La filastrocca del Bene e del Male e nel bellissimo Bohumil , che allude a Spoon River , o In punta di piedi , che è un omaggio alla letteratura cèka, con eleganti e raffinate emozioni letterarie, frutto di combinazioni imprevedibili, ma sempre illuminanti, alla maniera del joyciano Finnegans Wake.
Marianacci immerge insomma il proprio io e i personaggi della sua poesia in un vuoto che è tale per eccesso di pieno , ma ci mostra anche il graduale distacco, ossia il processo di questa metamorfosi, la luce che si trasforma in tenebra e torna luce, il rumore che si fa silenzio e torna rumore, la vita che tramonta e muore e poi risorge, il dolore che si muta in piacere per mutarsi ancora in dolore, in una sorta di corrente eraclitea, che il poeta si limita a contemplare senza volerla spiegare.

Ennio Bispuri
Barcellona, 16 agosto 2002