Giuseppe Bonaviri – (Signori del vento)

Quest’ultima silloge poetica di Dante Marianacci si può dire che si basa, se vogliamo trovare un elemento patognomico di fondo, sulla mobilità. Lo stesso titolo scaturisce da un verso della poesia “Campos di Castiglia”: “Eravamo i signori del vento”, espressione con cui si indica un amore aereo, mobile, in continua metamorfosi, fra Giuditta e vien da pensare, come partner, all’autore. Mentre l’io narrante recitava una poesia dello spagnolo Machado a Giuditta, e lei mangiava ciliegie, lui si dondolava sul ramo di fronte incurante degli uccelli che venivano e andavano per beccare quei frutti. L’innamorato, ritornatovi tempo dopo, non solo non ricorda nulla dei versi allora recitati, e vede – come se tutto si fosse trasformato in una memoria buffa, arlecchinesca, fra campi di papaveri e grano – solo spaventapasseri agghindati che spaventavano gli uomini e facevano ridere gli uccelli.
Cioè, nel volume ritroviamo la presenza di una rimemorazione “acuta”, quasi fosse una malattia, che dà luogo a versi e a quadretti indimenticabili, per poi lasciarsi dietro un vuoto di umana essenza e rivivere solo nel gioco immediato di una natura mutevole a seconda del ritmo stagionale. Si può dire quindi che la presenza-assenza, in un continuo ritmo di mobilità ( che assieme è inquietudine), è la costante che anima tutte queste poesie, assai belle, divise in sezioni e chiudentisi con le pagine di Postille: in cui le liriche si inverano nel ricordo della madre dell’autore e di antiche memorie paesane e campestri o di bàtraci, come tratte dalle tante letture fatte da Marianacci, ultima la memoria di Edimburgo.
La mobilità, anche come capacità di rinnovellata versificazione, è presente come vivissimo humus in tutto il libro. Anche la presenza dei fiumi, come la Moldava a Praga, o le coste battute dal mare, a Edimburgo, o in Irlanda, integrano questo senso di aerea ed acquea movenza cangevole. Beninteso, nascono dalle peregrinazioni, fatte per lavoro (e molto fruttuose sempre per la cultura italiana) da Marianacci. Tanto che mi verrebbe da pensare che in ogni “poesia vera” c’è la componente della mobilità sentimental-emotivo-verbale delle donne. Infatti nei libri poetici di Dante Marianacci si può cogliere, qui e là, come un interiore dulco (come si sarebbe detto una volta in Toscana) tempo interiore “femminino”. Ossia, mi si permetta il termine, la “femminilità” alberga sempre, sotto albori diversi, nella poesia “alta”. Perfino in una poesia, inclusa nella prima sezione, come “La prima freccia”, o prima pena, lanciata da mano invisibile, nasce dal senso di una mobilità o doppia faccia: la presenza reale e quella successiva, altrettanto reale, quando subentra il vuoto, la insoddisfazione, la tristezza: bianco/nero, contento/scontento, fuga/ritorno. La predetta poesia si chiude infatti:”E ride Crono giubilando con la coccia in mano/e bacchetta al suono di una cetra infinita./Così è la vita, una voce invisibile addita/ed è notte nella celletta stanza.”
A mio avviso, se si parte da una simile chiave di lettura si può seguire tutto il succedersi – che poi compongono un poemetto – delle presenti poesie, originali e bellissime, come quella dedicata al padre morto, o quella dedicata alla madre morta – che si chiude come una microsinfonia alla Bodric Smetana (morto a Praga nel 1884) – “e gli orologi che sempre volevi/per misurare il tempo dei ritorni.” Cioè un tempo di ritorni quasi odisseici (si ricordi, di Marianacci, il volume poetico dal titolo “I ritorni di Odysseus”, 1997).
Poiché si tratta di un volume bilingue (in italiano come lingua madre e in inglese come lingua oggi universale), sicuro che la traduttrice Heather Scott, vedova di un grande poeta scozzese, ne abbia fatto una eccellente traduzione – sarebbe interessante individuare quanto gli elementi fonici, ritmici, di inflessione, espressivi, e di capacità rimemorante siano stati translitterati dall’italiano all’inglese, quasi si trattasse di lampi policromatici che passano da uno specchio dirimpettaio ad un altro specchio: cioè, si verifica un eletto gioco di specchi verbal-poetici.

Giuseppe Bonaviri