Giuseppe Conte – (I ritorni di Odysseus)

I ritorni di Odysseus
(Noubs. 1995)

Questo libro di Dante Marianacci contiene poesie scritte nell´arco di trent´anni, dal 1966 al 1996, e la prima cosa che colpisce in esso è proprio la sua capacità di descrivere un itinerario –culturale, stilistico, emozionale motlo preciso e in qualche maniera emblematico. Le poesie della prima sezione sono di un lirismo intenso, che da una parte richiama il clima dell´ermetismo italiano ma dall´altra si alimenta subito del “correlativo oggettivo” eliotiano senza mediazioni, senza particolari soggezioni a Montale, il nostro poeta più vicino a quello della Terra Desolata. Va subito detto che il lavoro poetico di Marianacci, aderendo intimamente alle vicende biografiche dell´autore, sceglie sin dall´inizio un contesto europeo in cui svilupparsi e crescere. Il lirismo di ascedenza ermetica si sostanzia di una metaforcità che sa connettere il qui e l´altrove, l´infinitamente grande e l´infinitamente piccolo, la realtà e il sogno:

Se un granello d’immenso il varco aprisse
la formica sognerebbe di percorrerlo.
Oppure
Tu dici eterno ad ogni abbraccio
Mentr’io, ignaro
nell’attimo consumo l’infinito

Già nella Parte seconda, quella che raccoglie testi scritii tra il 1975 e il 1977, il tono cominicia a cambiare ma in maniera organica, seguendo la logica di una evoluzione, di una crescita: se prima Tiresia (individuato giustamente come figura-chiave nella Terra Desolata) era protagonista di una poesia intitolata Il canto di Tiresia, ora si limita a comparire come destinatario di una Lettera, di una poesia discorsiva, ironica, disillusa, che persino rimarca la portata della propria disillusione ironizzando su di essa, cogliendo a volo frammenti di linguaggio parlato:

Eliot mi ha stancato,
Flaubert mi ha scaricato da tempo,
del Ligure ne ho piene le tasche

ma sapendo subito accostare al linguaggio “basso” la glossa di una citazione al quadrato, un Baudlaire visto con gli occhi di Eliot stesso, ma inserito in un distico dove ora è la rima baciata a farsi foriera di leggera ironia:

Ah, Baudelaire Baudelarie
mon semblable mon fre´re.

L´ombra di Prufrock ha sostituito quella di Tiresia, i sogni sembrano diventati impossibili, ogni idillio lirico finito, ogni ritorno alla patria del sogno impossibile, come testimonianto della preziosa necessaria, abilissima citazione di Cavalcanti in questa poesia, non a caso intitolata “Ombra e ombra”.

Ombra e ombra
si contorcono i sogni
a immagine di donna
e la memoria brucia
su ogni spazio dilatato
che straripa
Dita lunghissime
avide agguantano
un poco d´innocenza
da che la vita ingorda
illuso e disilluso
ha giorni dell´idillio.

Perch’io non spero
di tornar giammai.

Il Lirismo di partenza si tempera man mano con toni più densi, materici, con immagini più concrete e sorprendenti, come quella di una rosa che sboccia “di soppiatto tra le crepe di un muro”, di una vita “tra fuochi e fiori” che si scrive ogni momento e ha “i battiti dell’uragano”. L’itinerario di Marianacci ha il suo momento nodale nel testo che apre la Parte quinta, quella che comprende la poesie a partire dal 1985: è la “Lettera a Seifer”, dove il dialogo con il grande poeta boemo assume un nuovo andamento elegiaco, dove lirisimo e discorsitivà si fondono con grande felicità espressiva: il verso si fa più lungo, dondonlante e però netto dolcemente asseverativo:

E’ vero che la vita fugge come l’acqua tra le dita
prima ancora ch’io possa placare la mia sete.
E’ vero che non amano gli anni gli amori eterni
e i lunghi sogni che vengono al mattino rapidamente
svaniscono. E’ vero che sono i poeti a portare in tasca
le chiavi del mondo e pur se non s’intendono di leggi
sanno d´essere stati condannati a vita.
E ’vero. E’ vero. Tutto quel che dici  è  vero.

Da questo momento, Marianacci riesce a far risuonare innanzitutto e poi a far dialogare tra loro culture diverse, e lontane, o almeno apparentemente lontante. Ecco che nei suoi versi compaiono Praga e la Moldava con immagini perentorie, essenziali: ed ecco che vecchie fotografie “di un cigno che nidificava/ sotto un ponte di Praga/ lungo la Moldava” sfogliate insieme all sua bambina richiama alla mente del poeta i cigni che sorvolano i laghi d’Irlanda, l’isola dove le nuovole hanno “amplessi furtivi”, dove si possono cercare “i folletti e le fate”, altro luogo che avrà una particolare rilevanza nel suo itinerario spirituale e culturale, come testimoniano i riferimenti delle poesie finali a Heaney e a Beckett.
Il Baudelaire di “L’albatros”, quasi ironicamente alluso, e il Mallarmé di “Brezza marina” distesamente citato, echi di Gozzano, di Pascoli, si intersecano in un tessuto ormai robusto, di una poesia che ha trovato il proprio centro, la propria ragion d’essere. L´Odysseus del titolo ha fatto davvero il proprio ritorno nel paese dell’anima: ma non è che uno dei tanti “ritorni” possibili : il poeta sa bene che

L´anima è come un gorgo vorace che macina sogni

e che dunque, come l’Ulisse di Dante, occorre essere sempre pronti a sfidare le onde, a rialzare le vele del sogno e della conoscenza, a ricomniciare il viaggio.

Giuseppe Conte