Gyozo Szabó – (I fiori del Tibisco)

I FIORI DEL TIBISCO

Leggendo il secondo romanzo di Dante Marianacci che ha per titolo I fiori del Tibisco, sorge spontanea la domanda: che cosa spinge una persona di tutto rispetto come il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Budapest a rivelarci i suoi segreti, i suoi travagli, smentendo l’immagine che ci eravamo creati di lui e cioè che egli fosse un uomo mediterraneo ilare e di costante serenità. Potremmo trovare una prima risposta nelle parole dello scrittore ungherese Dezső Kosztolányi che, a proposito del carattere degli italiani, afferma che “dietro la forma leggiadra può celarsi un contenuto prima non sospettato”. E anche lo stesso Marianacci ci fornisce una spiegazione, attribuendo a Giorgio, protagonista del romanzo e, per molti aspetti, suo alter ego – come lo era Esti Kornél per Kosztolányi – le seguenti riflessioni: “…sognando e scrivendo, scrivendo e sognando…gli sarebbe piaciuto lasciare un segnale ai posteri. Come Joyce aveva fatto con Dublino, affermando che se la sua città fosse stata distrutta, avrebbero potuto ricostruirla attraverso i suoi libri, così lui avrebbe voluto fare di quelli paesi, di quelle colline, di quelle valli, di quei monti, che gli apparivano sempre più vicini, di quella gente e delle tante storie che aveva sentito raccontare dai vecchi e che si stavano irrimediabilmente perdendo.”
Il piccolo mondo antico ricostruito nelle pagine di I fiori del Tibisco, dove Giorgio rifugge dal “mondo tumultoso che lo aveva portato in giro per l’Europa senza mai dargli il tempo nemmeno di fermarsi e pensare “, è, anche secondo la testimonianza dei toponimi più o meno noti (Pescara, Capestrano, Guiliano Teatino, Villamagna, ecc.), un’ancora idilliaca campagna abruzzese. L’Autore vi fa ritorno anche nel tempo, rievocando, similmente all’Amarcord felliniano, gli straordinari personaggi conosciuti nell’infanzia o da giovane. Reali o immaginari, comunque sono del tutto credebili, a cominciare da zio Camillo che faceva il lattaio e l’adorata insegnante di lettere, Bice, fino a Gisèle e Giovina, la strana coppia coinvolta in un memorabile scandalo, provocato dall’intraprendente dongiovanni Pasquale Fresicchi. Anche il capitolo dedicato alla figura della madre, scritto in forma di diario, richiama, in modo particolare, nell’episodio del bagnetto, un altro film di Fellini, l’8 e mezzo.
Ancora più che di reminiscenze cinematografiche, il tessuto narrativo è ricco di riferimenti a opere letterarie e figurative. E come Giorgio che passa notti intere tra le pagine di un Palazzi di 63.890 voci, l’Autore è un amante delle parole, cioè un vero e proprio filologo che, accanto alle disquisizioni sull’etimologia del cognome del protagonista, ci regala piccole enciclopedie di termini architettonici, botanici ed entomologici.
Il lettore ungherese scopre con sensi di gratitudine le citazioni di Petőfi e di Madách che fanno da cornice al romanzo. L’omaggio all’Ungheria si accentua nelle pagine che si riferiscono a luoghi ed eventi budapestini e seghedini. Grazie alla bravura della traduttrice, Margit Lukácsi, nella versione ungherese rimane altamente poetica anche la descrizione della più bella scena d’amore culminante nei momenti della “fioritura” del Tibisco.

Győző Szabő