Károly G. Tóth – (I fiori del Tibisco)

Dante Marianacci: I fiori del Tibisco

Giorgio, un diplomatico culturale al culmine della propria carriera, da un giorno all’altro, „senza nessun preavviso”, decide di abbandonare la sua vita attuale, per ritirarsi a tempo indeterminato nel silenzio delle campagne della sua terra natìa, l’ameno Abruzzo. Questa decisione è ancora più sorprendente poiché egli, che è arrivato ancora giovane alla guida dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest direttamente da Dublino, si trova impegnato in progetti elaborati con molto lavoro, collaborazioni già avviate, conferenze stampa con ministri ed ambasciatori per accordi interstatali, e soprattutto  nella ratifica della firma di un accordo bilaterale, la quale coronerebbe con il giusto riconoscimento un periodo di lavoro molto faticoso. Ciò non cambia la decisione del protagonista, prepara i bagagli, lascia le apposite direttive al suo sostituto e parte. Con questa piega sorprendente inizia l’ultimo romanzo di Dante Marianacci, I fiori del Tibisco.
Ciò che per il mondo esterno è sconcertante e difficile da capire, per Giorgio è una conseguenza più che logica: egli sente che, le sue azioni divenute una routine, i suoi tormenti, i rapporti di dipendenza divenuti via via piú pesanti, detto banalmente, lo stress divenuto una costante quotidiana, è come se si stessero adagiando su di lui minacciando di schiacciarlo, cosa che fa scaturire la decisione di operare delle scelte in base alle proprie convinzioni, e solo in base a quelle. Quindi qui si parla di una reale situazione di crisi – cosa potrebbe tirare fuori dall’uomo reazioni inaspettate come queste? – che potrebbe essere considerata indipendente dal tempo e dal luogo. Secondo tutti i segnali però essa non è indipendente dal gioco dei ruoli, che nel nell’epoca moderna sta diventando sempre più pesante e nello stesso tempo un’apparizione pubblica che prova, e insieme mette alla prova la capacità di sopportazione dell’individuo, ponendo inoltre molti interrogativi riguardo all’integrità, alla realtà, alla sostanza dell’io, anzi, anche in relazione alla sua essenza stessa. Però pare che il problema principale del protagonista dei „Fiori del Tibisco” non è tanto il fatto che debba interpretare molti ruoli differenti, bensì, che uno di questi, che è poi il principale, quello derivante dalla sua professione, diviene patologicamente, e cresciuto in maniera lussureggiante, quello dominante. Uno dei momenti caratterizzanti di questo ruolo è la pertecipazione obbligatoria ai banchetti senza fine, in cui stando al centro delle attenzioni come una sorta di idolo, bisogna dare l’impressione di quanto si gradisca tutto ciò che viene offerto. È comprensibile, quindi, che Giorgio preferisca alle continue ripetizioni imposte della sua realtà quotidiana una realtà piú valida, di cui è ipotizzata l’essenza tramite l’istintiva sicurezza del presentimento, che  spera di trovare nella propria terra natìa, e, non certo in minima parte, nellla memoria del tempo andato.
La sua decisione, da questo punto di vista, può essere vista come un esodo del ventunesimo secolo, come una ritirata, nel corso della quale diviene parte una volta per tutte  di un’iniziazione, o per meglio dire, di una nuova iniziazione, ripassando attraverso le fermate già vissute della maturazione, della realizzazione. In questa parte del romanzo contenente un’azione vera e molte volte accordata in modo lirico, si parla di questo, del passato che riecheggia nel presente, del luogo natìo, della madre, del padre, dei parenti, dei conoscenti, della scuola, delle amicizie, degli amori, della sua devozione e della sua sensibilità  – delle sue ricerche e dei suoi sbagli ovviamente. Ovvero della composizione e delle mille sfaccetteture della vita, che sarebbe buono, se ciò si annidasse nell’uomo, come egli in sé stesso.

 Il narratore rafforza la spontaneità delle cose dette prima con il cambiamento dei punti di vista (una parte del racconto Giorgio la narra in base al proprio diario e a un album fotografico trovato nel frattempo), inoltre con il modo di raccontare rilassato e che procede costellato da morbide associazioni, con inserimenti radicati nella storia, il cui ricordo involontario ricorda la tecnica del ricordo di Proust. Il nome del romanziere francese deve essere nominato necessariamente e con diritto ne „I fiori del Tibisco” perché lui assume grande importanza nella densità dell’opera, nei riferimenti culturali che giocano una parte importante nell’atmosfera della narrazione, nelle citazioni estrapolate dalla letteratura e soprattutto dall’arte in generale. Tra i nomi degli scrittori capita di vedere citato il più delle volte accanto a quello di Proust, quello di Joyce, Balzac, Dante, (quello di autori ungheresi anche), tra i rappresentanti degli altri rami dell’arte invece i nomi di Veronese, Tiziano, Courbet, Verdi. Proust appare all’insegna della citazione del tempo perduto, Joyce, o meglio, il suo Ulisse o Leopold Bloom sono evocati dal Giorgio insicuro, incerto, ma che ancora è in cerca tra i frammenti a brandelli del suo destino. Nello stesso tempo la cultura e l’arte rappresenta molto non solo per i protagonisti intellettuali, cittadini del mondo, ma anche per le persone semplici, come testimoniano la pratica ed il credito delle tradizioni, o l’amore per Verdi di Giustino, gigante con la passione per la musica, amico del padre. Ma i riferimenti culturali, presi in linea generale, sono fra i decisivi nel mondo dell’opera descritta. Il romanzo tutto ci fa capire che il collegamento tra arte e vita non solo è possibile ma desiderabile, che l’arte in qualunque caso ha un ruolo immutato, che l’arte fondamentalmente è una presenza radicata. Come testimonia la carriera di un’insigne figura dell’opera, Bertha, la fan di Joyce, l’amore del narratore: il suo romanzo di successo non i sarebbe mai potuto realizzare senza l’Ulisse di Joyce, cosí come molti altri che traggono energia dalla „realtà alternativa”. É vero, e forse è ciò che può concedere all’agire umano la dinamica faticosamente liberata, tanto che è necessario distinguersi dalla norma quanto è indispensabile identificarvisi…
C’é una soluzione, una qualche soluzione a quella crisi in cui è capitato il protagonista del romanzo, Giorgio? A questa domanda possiamo rispondere brevemente sia in senso affermativo, sia in senso negativo. Sì, perché Giorgio alla fine si rimette all’opera, quindi, è successo qualcosa che ha rimesso in moto i meccnismi precedenti. (Anche se c’è da notare, che presto deve prendersi una di quelle pasticche che gli ha prescritto l’amico medico per curare i suoi problemi nervosi. Allora la situazione è cambiata, oppure no? La situazione non è cambiata, ma qui vengono a galla morali più profonde. Giorgio ha dovuto scoprire, vivendo tutta la sua vita, ovvero la vita sua tutta (quella in cui poteva essere quello che era) che la soluzione non esiste. Luciano, il suo consiglio da amico disinteressato, secondo il quale „lo stress è nella tua testa”, „Lo devi affrontare e ci devi combattere”, oltre al fatto che sembra vero e da prendere in considerazione, sembra che lo intenda in modo ironico. Non c’è una soluzione, o meglio è quella che ci vede costretti a combattere una lotta continua e, purtroppo, per nulla eroica contro le nostre debolezze, le nostre ombre, le nostre attuali condizioni di vita, alla fine della quale nessuno può garantirci la vittoria. È vero, non si esclude nemmeno il diritto di considerare come soluzione la possibilità di ritirarsi.

  I fiori del Tibisco non sono un saggio, un’opera filosofica. Ma insieme al fatto che il romanzo si fonda sulla vita vissuta, con i riferimenti simbolici esprime profondi insegnamenti. Alla fine dell’opera possiamo leggere una citazione di Simone Weil („Occore ripensare daccapo la nostra fede”), dove è come se, preso in considerazione il contesto del romanzo stesso, l’accento cada sulla prima parte della frase („Occorre ripensare daccapo…”) di significato più generale e lato. Ma in tutta l’opera sono espressi concetti efficacemente simbolici nei capitoli Due (i titoli dei capitoli sono segnalati con numeri cardinali) e Diciasette. Lì, all’inizio un amico avvisa il protagonista che ha superato il concetto di „mens sana in corpore sano” e che si dovrebbe preoccupare invece del „corpus sanum in mente sana” il quale principio avvisa che ”è vero che ognuno ha il diritto di cercare la propria felicità, è vero pure che la vita è fatta anche di sofferenza e dolore”.  Nel quadro successivo, alla fine del romanzo, Giorgio osserva sul posto il meraviglioso spettacolo della sciamatura e dell’accoppiamento delle effimere sul Tibisco, e contemporaneamente vive la sublimazione della storia d’amore forse più appassionata che abbia mai vissuto. In questo momento si pone l’interrogativo liberatorio e pressante vissuto per tutta la sua esistenza, relativo alla commedia imbarazzantemente magnifica della vita e della morte: „ Non era in fondo quella grande nuvola sospesa una metafora della vita dell’uomo nell’immenso mare dell’universo?” La domanda rimane ovviamente insoluta. E per eccellenza, risposta sicura non c’è. E non ci può nemmeno essere. Ma non bisogna nemmeno trovare una risposta. Questa apertura aumenta il riconoscimento ed il valore del romanzo. Una cosa però sicuramente si svela con sicurezza,  cioè che l’uomo (Giorgio ed altri) sono uniti al mondo/vita con la più grande forza, e con tutte le contraddizioni prima di tutto dalle passioni. Così come non richiede particolari spiegazioni il fatto che „I fiori del Tibisco” viene concluso con una citazione che riporta una frase di Adamo de „L’umana tragedia” di Imre Madach: „Peggio per me d’altronde, se ho l’anima arida. Ma mi piace credere che nel cuore di una giovinetta vivano i pregiudizi, la santa poesia e l’intatta purezza di un fiore”.

Károly G. Tóth