Lucilla Sergiacomo – (I fiori del Tibisco)

I fiori del Tibisco di Dante Marianacci

Il protagonista del breve romanzo I fiori del Tibisco di Dante Marianacci è un uomo maturo che si stanca della sua quotidianità per andare a cercarne un’altra in un altro luogo che è la sua terra d’origine, l’Abruzzo.
La sua fonte di movimento è quindi l’inquietudine, il desiderio di riappropriarsi di un punto di vista inconsciamente già posseduto da cui guardare con nuovi occhi la vita.
Dopo aver compiuto questo cambiamento, da lui individuato come “vita nuova”, il personaggio alla fine della storia torna però nel luogo di partenza e riprende la sua precedente vita.
Il pezzo di esistenza del protagonista che viene narrato è quindi un percorso di conoscenza strettamente connesso ai luoghi in cui si svolge la storia, perché il personaggio, che da molti anni abita in luoghi stranieri lontani da quello dove è nato e cresciuto, ha bisogno di guardarli dall’altra parte della sponda, compiendo un nostos nel suo paese, per poi ritornare ai luoghi lontani della sua età adulta.
Questo andirivieni di partenze e ritorni ha come risultato la consapevolezza che nessun luogo è mai sufficiente, mai davvero completante per darci la felicità, nemmeno quando, come appunto fa il protagonista, lo si progetta attentamente, quasi ossessivamente, come un posto che consenta il recupero della memoria, l’isolamento, la riflessione, la riacquisizione della salute dell’anima e del corpo, combattendo “il cane nero” della depressione che è sempre in agguato.
Quando il protagonista torna in Abruzzo sceglie infatti un luogo ideale e va a vivere nella casa di campagna che era stata dei genitori, tra i luoghi familiari del paese dell’infanzia. Di fronte alla sua casa c’è ancora lo stesso leccio sotto il quale aspettava l’autobus con la madre quando andava a scuola, passeggia tra i boschi che hanno visto i suoi primi amori, ritrova vecchie foto di famiglia e di scuola, riscopre il sapore dei cibi materni e le vicende dei compaesani.
Il recupero memoriale soddisfa la sua volontà di conoscere più a fondo la propria identità, mettendo insieme i pezzi di storie che riesce a ricordare e a rintracciare sulla madre e sul padre e sui loro paesi di provenienza.
Mentre il suo cervello lavora a questa riconquista del passato che dà vita a un intreccio torrenziale di notizie, personaggi, situazioni e sentimenti, il protagonista si costruisce un rifugio perfetto in cui poter vivere, sottraendo al suo abbandono la vecchia casa di famiglia.
Il ritrovato rapporto con i luoghi della sua fanciullezza determina alcuni visibili cambiamenti: la casa di paese viene ristrutturata e completata da una piscina e una palestra, i terreni intorno tornano a essere coltivati, il giardino fiorisce di rose rosse come quelle curate un tempo dalla madre, l’abitazione diviene insomma un piccolo paradiso quasi fiabesco, dove il protagonista potrà vivere “scrivendo e sognando”, soddisfacendo il suo desiderio di “lasciare un segno ai posteri”.
La metamorfosi dei luoghi esterni e, più in generale, la costante presenza dei paesaggi e dei personaggi abruzzesi sono oggetto di frequenti descrizioni che danno spesso al racconto un andamento statico e svolgono una funzione conoscitiva, accumulando una serie di informazioni che sembrano sospendere il corso del tempo e dilatare la narrazione nello spazio.

L’elemento descrittivo, molto presente nel romanzo, può però assumere a volte anche una funzione di natura simbolica, come avviene nelle pagine dedicate al Guerriero di Capestrano (pp. 68-71), la cui figura mitica entra nella storia di Giorgio, è questo il nome del protagonista, attraverso un commilitone del padre che gli aveva raccontato la scoperta della statua fatta casualmente da un contadino del paese, certo Michele Castagna, mentre zappava nel suo vigneto. La storia di questo ritrovamento aveva colpito Giorgio bambino che in seguito, quando studiava a Chieti, era stato stregato dal fascino straordinario di quella scultura, tante volte da lui contemplata al Museo e descritta nel libro nei suoi minimi particolari. Quell’antico e misterioso guerriero per lui era diventato una specie di protettore e di portafortuna, entrando anche nei suoi sogni e ispirando per qualche tempo i suoi pensieri e le sue azioni, fondendosi con l’altra mitica figura di San Giovanni da Capestrano, che aveva compiuto le sue gesta storiche in Boemia e in terra magiara, negli stessi luoghi in cui Giorgio, come per predestinazione, aveva lavorato dopo aver lasciato l’Abruzzo.
Un altro passo in cui nel romanzo la descrizione si fa simbolo e premonizione è quello in cui compare l’albero di lauro che il padre del protagonista aveva piantato accanto alla casa il giorno in cui era nato il figlio, per annunciare “la nascita di un poeta”. Il lauro, così lo descrive Giorgio, era “cresciuto un poco ricurvo all’ombra di una quercia”, diviso in “due tronchi che a un certo punto si erano incastonati indissolubilmente come due anime dantesche” (p. 47, capitolo 8).
Il segno di dualità annunciato dall’alloro attraversa tutto il libro, ne è anzi la marca distintiva, perché il romanzo si fonda su continue opposizioni tra mondi, esigenze e bisogni del protagonista.
Il mondo lontano dall’Abruzzo, che appartiene a una geografia europea, è quello della carriera, della dedizione assoluta al lavoro, delle relazioni pubbliche, degli impegni ufficiali, del tempo programmato al millesimo, dell’attivismo frenetico, del rumore, dei viaggi continui, del rapporto con il presente.
Il mondo abruzzese è invece quello dell’immobilismo, della solitudine, del torpore, delle abitudini che lentamente scandiscono in ritmo delle giornate, dell’amore per la natura mitica dell’infanzia, delle memorie che si affollano costruendo all’interno della storia individuale un piccolo romanzo di famiglia.
L’opposizione tra i due spazi del romanzo si traduce sul piano dell’azione nella differenza tra la creatività intellettuale che distingue la vita del protagonista nelle città europee dove ha vissuto, Dublino, Londra, Praga, Budapest, e l’abulia e la depressione in cui sprofonda una volta tornato in patria, malgrado alle origini di tale rientro ci sia l’esigenza insopprimibile di ritrovare la salute, un progetto di vita che costantemente fa scorgere dietro Giorgio l’ombra dello Zeno sveviano.
L’Abruzzo doveva essere per lui una terra rigeneratrice di energie e una fonte di rasserenamento, mentre il mondo lontano delle grandi e famose città europee nella coscienza del protagonista coincide con la malattia e il disagio interiore, simboleggiati dall’alimentazione sofisticata e disordinata dei “banchetti interminabili” delle cerimonie a cui doveva partecipare, dai ristoranti dove consumava pasti solitari e sciatti, dall’insonnia che lo tormentava, da fastidiosi e preoccupanti sintomi scatenati dalle pressanti responsabilità del suo lavoro.
A tutto questo disordine, dopo la decisione di cambiare vita tornando in Abruzzo, si contrappone la volontà di fare una vita tranquilla e una dieta accorta, tornando alle sue abitudini campagnole e interrompendo i suoi rapporti con il mondo.
Il ritorno nell’Arcadia dell’infanzia si costruisce nella storia di Giorgio attraverso la riappropriazione dei luoghi, unita all’evocazione di presenze lontane.
Oltre a quelle della madre e del padre, che sono dominanti, sfila nella memoria ritrovata di Giorgio una serie di personaggi e situazioni del passato perduto che formano una piccola galleria abruzzese: la famiglia materna che viveva a Giuliano Teatino, colta nella giornata della festa della Madonna della Neve, alla quale interviene, invitato dal fratello della madre che era il sindaco del paese, un importante esponente politico abruzzese con le sue altisonanti promesse ai “coltivatori diretti”; la gita scolastica all’abbazia di San Giovanni in Venere, dove Giorgio scopre che il viso della Vergine seduta in trono con il Bambino nella cripta è identico a quello della sua amata professoressa delle medie, bella e sensuale, il suo primo grande amore; l’emozione della prima volta che aveva visto il mare “immenso e azzurro”, arrivandoci da bambino sul furgoncino del lattaio, quando ancora a Francavilla e Pescara il lungomare non era assediato dai palazzoni di cemento; le passeggiate a Piazza Salotto e Corso Umberto a Pescara, popolati nei pomeriggi estivi dagli stranieri e dalla gente delle colline e delle montagne dell’entroterra che si illanguidiva a guardare le minigonne delle ragazze negli anni Sessanta.

I luoghi abruzzesi che compaiono nel romanzo non sono però solo uno sfondo ambientale delle vicende, sono essi stessi protagonisti della formazione del protagonista e del suo ritorno a casa. L’importanza del loro ruolo è sottolineata da un’efficace descrittività, che si attenua invece quando la storia si colloca nei luoghi dell’altrove, fuori dall’Abruzzo.
Appena un cenno si trova sui luoghi joyciani della giornata dublinese trascorsa sulle orme di Mister Bloom, sulle notti di Budapest che inizia a coprirsi di neve, sugli scorci di Praga, Glasgow, Londra.
Le città straniere in cui Giorgio è vissuto sembrano solo nomi estranei alla sua vita, che si ripiega tutta all’indietro, verso il recupero della sua identità, che nel testo si costruisce mediante la particolare modalità narrativa della libera concatenazione e associazione di impressioni, ricordi, pensieri, attraverso continue digressioni che inseriscono storie nelle storie, oscillando tra le diverse età del protagonista e creando un tempo circolare dove l’età adulta si ricongiunge con l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza.
L’unico luogo dell’altrove che viene ampiamente descritto e che dà poi il titolo al romanzo è il fiume Tibisco, nella città ungherese di Szeged, dove avviene il volo delle effimere, i piccolissimi insetti che in un solo giorno dell’anno coprono le acque del fiume per poche ore, riproducendosi e poi morendo nelle sue acque.
La visione dello straordinario fenomeno naturale segna nell’animo del protagonista la rinascita, pur se “effimera”, della vitalità e dell’amore, e gli appare come una metafora dell’esistenza umana: l’unione tra i maschi e le femmine degli insetti gli sembra infatti riprodurre “la grande lussuria del mondo” svelandogli al contempo che lui e tutte le creature umane sono “Esseri effimeri tra effimeri insetti”, che si accoppiano confusi tra loro, e che il destino comune agli uomini e agli insetti è morire dopo aver generato.
Il romanzo, che si conclude con il ritorno di Giorgio al suo lavoro e con la separazione da una giovane donna che lo aveva condotto sulle rive del Tibisco e aveva provocato in lui un rinnovato interesse per la vita, esprime quindi l’impossibilità di trasformare la propria esistenza tentando di far rivivere l’innocenza dell’infanzia e allontanandosi dagli impegni e dalle responsabilità della maturità.
Ciononostante, il nostos del protagonista in Abruzzo e il suo tentativo dantesco di condurvi una “vita nuova” combattendo i suoi malesseri e facendo il bilancio della sua vita non appaiono inutili, perché comunque producono da una parte l’arricchimento della sua consapevolezza esistenziale e dall’altra il compimento del suo atto d’amore verso le persone e la terra del suo passato.
Per tali aspetti tematici e ideologici e per la forte presenza dei luoghi abruzzesi disseminata nei capitoletti del racconto, I fiori del Tibisco possono essere inseriti in quel filone narrativo della letteratura abruzzese che è stato definito da Umberto Russo del nostos, nel quale si collocano gli scritti memorialistici di scrittori come Gioacchino Volpe, Giovanni Titta Rosa, Nicola Moscardelli, Ennio Flaiano. In queste pagine rivivono situazioni personaggi e motivi del mondo regionale originalmente rievocati da scrittori che hanno operato fuori dall’Abruzzo e che si sono inseriti in un contesto nazionale o, come è il caso attuale di Marianacci, internazionale e che pure sentono il bisogno di rapportarsi alla cultura da cui provengono con un atteggiamento rievocativo e nostalgico che non è un atto sterile, perché coincide con un processo di conoscenza e contribuisce a conservare la memoria.

Lucilla Sergiacomo