Maria Antonietta Grignani – (I fiori del Tibisco)

D. Marianacci, I fiori del Tibisco , Rubbettino, Soveria Mannelli 2006

L’autore del romanzo, alla sua seconda prova narrativa (il primo libro in prosa I cloni di Mr. Bond è uscito qualche anno fa), è noto poeta e saggista, con una lunga esperienza di lavoro intellettuale in vari Istituti italiani di Cultura in Europa, da ultimo a Budapest nella stupenda sede storica del primo Parlamento ungherese, dove svolge un’eccellente attività di direttore e organizzatore di convegni, cicli di film italiani, mostre, corsi di lingua e cultura, nonché di ideatore della rivista “Italia & Italy”, da lui avviata in Inghilterra e ora riambientata in sede magiara, con informazioni pronte sul nuovo che accade in Italia, sulle presenze di artisti all’Istituto e sui rapporti secolari tra i due paesi. Dico questo in premessa, perché I fiori del Tibisco è un libro autobiografico in profondità, che rispecchia non solo il vissuto non facile di Marianacci, fatto di inevitabile sradicamento dall’Italia e per di più di peregrinazioni di sede in sede – con un costo psicologico alto pur nelle esperienze importanti -, ma anche la formazione personale e le salvifiche passioni letterarie dell’autore, trasposti nel profilo esistenziale e psicologico del protagonista Giorgio.
Va da sé che si tratta di un autobiografismo non immediato (di autobiografie palesi e spesso narcisistiche di intellettuali italiani trabocca la stampa recente!), bensì filtrato e oggettivato alla terza persona; ma resta evidente il fondo di amore e nostalgia dell’autore storico per la propria terra d’origine, l’Abruzzo, dove Giorgio con risoluzione repentina si rifugia dopo aver praticato e conosciuto bene i contesti europei, dai quali anche Marianacci ha traguardato e ripensato la propria vita, il mondo e l’antropologia delle sue proprie origini. L’Abruzzo della giovinezza vale ovviamente per sé in chiave di ricordi, ma funziona anche come metafora di tutta la civiltà locale, ricca di testimonianze del passato, che la vita nelle moderne capitali d’Europa sembra aver dimenticato o rimuovere: l’Irlanda di Dublino con i suoi curiosi, snobistici adepti joyciani, la Scozia di Edimburgo e l’Ungheria di Budapest, cui il protagonista tornerà alla fine sull’onda di una questione privata e della curiosità per luoghi meno contaminati dalla globalizzazione: Szeged e Szolnok, città bagnate dal fiume Tibisco, sulle cui acque si verifica ogni anno a giugno il miracolo della riproduzione e della morte rapidissima delle effimere, sciami enormi di piccoli insetti, aerei e transeunti come nuvole di microscopici fiori luminescenti.
La metafora floreale che dà nome alla narrazione è importante perché il titolo allude anche al mondo degli umani: “immerso nell’immenso mare dell’universo”, ma segnato da un’illusione di potenza individualistica assurda perché residuale, da un antropocentrismo dissennato, questo mondo tumultuoso e superficialmente cursorio, affannato dai ritmi contratti della comunicazione sociale e informatica, sbaglia se si rifiuta di prendere insegnamenti dal resto dell’universo naturale, come hanno capito in questi ultimi decenni parecchi poeti: “Volano sulle correnti / di un invisibile oceano / che si suppone infinito / le diverse specie di effimere / dalla forma inconsistente. / Si manifesta allora il principio di contraddizione, / benché duri soltanto un giorno o due / questo breve dominio, / effimero come dice il nome” (i versi sono di Giampiero Neri, dedicati alla parabola delle effimere e potrebbero essere posti a epigrafe del libro in discorso).
Veniamo al libro. Sul più bello di accordi bilaterali per l’ingresso dell’Ungheria in Europa, che gli erano costati non poca dedizione e fatica, Giorgio abbandona l’attività a Budapest per tornare alla casa dei genitori in un paese dell’entroterra d’Abruzzo a pochi chilometri da Francavilla al Mare. Qui, dopo aver passato un periodo di attivismo sfrenato nei restauri, nell’attrezzatura della proprietà e nell’organizzazione salutistica della propria vita, resta in una sorta di atonia spirituale dove irrompono soltanto i ricordi della madre o del padre e gli aneddoti paesani che ha raccolto in giro dalla viva voce dei contadini. Il resto è consultazione di vecchi documenti, attualizzazione di proprie pagine scoperte in una scatola impolverata della soffitta e vagheggiamento di affetti ormai passati in giudicato. L’uso della terza persona implica la citazione obiettivante di pagine di poesie e di prose dell’autore, più o meno recenti, segnacoli ulteriori di autobiografia letteraria: poesia per la morte della madre, omaggio in versi all’insegnante di cui il ragazzo di allora era innamorato, racconto giovanile di una gita a Giuliano Teatino con la mamma.

Giorgio (e dietro di lui il narratore solidale), nevrotico come tutti gli intellettuali, registra giorno per giorno gli attrezzi della palestra e le diete, elenca tramite il filtro della voce narrante i singoli alberi o vegetali ornamentali, da frutta, da orto e officinali che ha fatto piantare nel podere (“un campo di alberi da frutta, con meli, fichi, peri, peschi, susini, ciliegi, albicocchi, mandorli, noci, kaki, nespoli, ma anche sorbi, aranci, mandarini, limoni, cedri, noccioli, cotogni, melograni”, p. 11; “cavoli, lattughe, spinaci, cicoria, ruchetta, patate, pomodori, peperoni, piselli, fave, cipolle, agli, erba cipollina” ecc., p. 12; il tarassaco o “dente del leone, ma anche piscialletto e soffione”, p. 23), i nomi non dissimulati dei paesi circonvicini ( “Orsogna, Filetto, Ari, Miglianico, Montupoli, Vacri, Valle Foro, Francavilla”, p. 35), i termini del manuale di architettura medievale esibiti un tempo alla professoressa amata per fare colpo su di lei nella rievocata gita adolescenziale al monastero di San Giovanni in Venere (“transetto, cubitus, arco a sesto acuto, arco a tutto sesto, navata, presbiterio, abside, cripta, struttura a capriate lignee” ecc., p. 76). La precisione terminologica è sintomo e spia di un affanno, che si manifesta sia nel regesto puntiglioso di un’iperattività organizzativa perseguita per combattere l’atonia, sia nel recupero di ricordi familiari che si appendono ai nomi per timore di perdere le realtà affettive riattivate nella mente.
Giorgio intreccia le memorie dei genitori e le voci perdute di un ambiente ormai lontano (il padre e la madre, i vicini e i compagni di scuola, Camillo venditore di latte, lo zio sindaco di Giuliano Teatino, le macchiette come il filosofo perdigiorno detto ‘Caronte’, le ragazzine delle prime infatuazioni, le credenze e le feste popolari) a elementi di storia locale: l’enigmatico Guerriero o “Mammoccio” di Capestrano dissepolto molti decenni fa da un contadino e portato nel museo di Chieti, il ballo della “pupa”, la “processione dei talami” di Orsogna, la poesia di D’Annunzio dedicata a un dolce tipico di Pescara. Finalmente, nella casa di campagna, trasformatasi da buen retiro in incubo di solitudine insostenibile, irrompe una giovane entomologa bellissima, che risveglia Giorgio dall’inerzia in cui è caduto e lo invoglia a tornare in Ungheria sulla riva del Tibisco, dove lo spettacolo della fecondazione delle effimere fa da sfondo a una ripresa dell’istinto vitale, dell’amore e del lavoro, con i già collaudati disturbi dell’insonnia e della fatica da superlavoro. Morale: non funzionano né la fuga memoriale nel passato né la rinuncia ai ritmi che la nostra presente vita impone; una vita che va accettata con la consapevolezza dei danni che ci procura, con il coraggio di affrontarla dopo averla rifiutata e capita.
Marianacci è lontano da una scrittura sperimentale e parimenti da una lingua di parlato dal basso, mentre si affida a una pagina stilisticamente pulita e ben curata, in cui si inseriscono quando occorra termini locali, insieme a emergenze di testi amati, come il Montale del famoso “osso breve” sulla carrucola del pozzo che “cigola” e riporta alla superficie i ricordi con il “ricolmo secchio” (p. 12, ripresa dei termini-chiave a p. 55). L’autore dunque non nasconde snobisticamente poeti o passi amati e cita Montale, Cardarelli, Piero Chiara, D’Annunzio e l’ungherese Imre Madach senza infingimenti o pratiche di allusione occulta, volte a sollecitare soltanto il lettore esperto. Allo stesso modo il rosario di ricordi che si susseguono accade per gemmazione spontanea, l’uno agganciandosi all’altro per via tematica e per richiami legati ai nomi di persona e di luogo, quando non evocati da un’attività onirica o meditabonda, che tuttavia non eccede nei salti della connessione, ma la asseconda con esplicita probità. Chi nella narrativa vada cercando pratiche formali inedite, fratture che spiazzino il lettore, complicazioni strutturali non troverà soddisfazione in questo libro. Lo leggerà con profitto, invece, il pubblico privo di pregiudizi e magari stanco di tanta narrativa intellettualistica e criptica, cioè le persone che in un’opera di narrativa cercano lo specchio di esperienze contemporanee di bilanciamento critico e autocritico tra le tradizioni o la cultura della memoria e gli impegni o le prove defatiganti della cosiddetta civiltà che al momento ci è imposta.

Maria Antonietta Grignani