Mihály Ilia – (I fiori del Tibisco)

Un lampo da un piccolo specchio italiano

Ho mantenuto un’usanza che ho da quando ero studente, ovvero ogni volta che leggo un romanzo di uno scrittore straniero mi appunto alla fine del libro qualsiasi nome, avvenimento, riferimento all’Ungheria, anche se l’autore cita solamente il vino Tokaji. Negli ultimi anni sono aumentate le annotazioni di questo genere, sono state pubblicate molte opere in ungherese di autori che in qualche maniera hanno a che fare con radici ungheresi, figli di emigrati del’56, persone che insomma da molto piccoli sono finiti a contatto di un’altra lingua. A partire da Pablo Urbanyi (Argentina e Canada) a Catherine Hoffman (Australia) e si potrebbe ancora continuare dal momento che l’elenco di questi nomi è molto ricco, ma nonostante ciò la letteratura ungherese non si occupa di loro, tranne qualche rara apparizione, con le loro opere tradotte che vengono mostrate come curiosità. Eppure in qualche misura dovremmo considerarli parte della nostra letteratura, dal momento che nei loro testi talvolta emergono tracce della lingua scomparsa sotto forma di slang, di nomi propri, o anche sotto forma di bestemmia. In queste opere i riferimenti all’Ungheria sono naturali. Ma ci sono autori che ricevono l’imput ad interessarsi alla nostra cultura grazie a viaggi o letture, ed in seguito scrivono nei propri romanzi il loro punto di vista su di noi. Nei giorni scorsi ho ricevuto in regalo dall’italianista József Pál il libro di Dante Marianacci „I fiori del Tibisco”, tradotto in ungherese da Margit Lukácsi. Il protagonista dell’opera, Giorgio, per sfuggire alla depressione, torna al suo paese natale, una piccola località di provincia, per far riaffiorare i ricordi. Come il protagonista è una persona di grande formazione culturale e conoscitore anche delle scienze naturali, cosí l’autore del romanzo si inebria della presentazione di questo sapere nelle sue citazioni, e certamente tutta questa cultura non esce dalla cornice dell’opera e anzi questa rappresentazione riesce a renderla un ottimo materiale psicologico.
Tanti altri aspetti riescono comunque a rendere interessante il romanzo di Marianacci agli occhi del lettore ungherese. L’opera comincia con una citazione della poesia „A Tisza” di Petőfi  „Come un pazzo che ha infranto le catene…”, che pare dare il motto all’opera, cosa che è assolutamente sorprendente da parte di un romanziere italiano.

Ma in seguito abbiamo la possibilità di stupirci, e, nello stesso tempo, di essere anche orgogliosi, poiché ci sono diverse parti del romanzo con riferimenti alla nostra cultura. Riteniamo naturale che il nome di Ferenc Liszt appaia. Compare anche Leopold Bloom dal romanzo di Joyce, anzi nell’elencazione internazionale del circolo-Joyce appaiono anche gli ungheresi, con i quali viene a contatto in questo caso il protagonista. Riteniamo ricordo comune anche la citazione de „Il fuoco” di D’Annunzio, poiché questo scrittore e questo romanzo pubblicato nel 1900 con la traduzione di Károly Lyka si sono intrecciati nella letteratura ungherese del ventesimo secolo, e l’influsso e gli scandali di questo autore hanno occupato non poco gli autori occidentali dell’epoca. Marianacci è come se parlasse di un ricordo comune. La bella, quasi poetica descrizione introspettiva, con gli occhi del bambino, della madre che si lava, prende il lettore, ma al lettore ungherese gli viene in mente la familiarità della scena in cui ella, mentre gli prepara il bagno, mette una foglia di noce nella tinozza, dal momento che anche le fanciulle magiare usavano questo espediente per rendere più belli i capelli. Questo non è un riferimento ungherese ma un’esperienza parallela, che ci fa quasi stringere al cuore il romanzo di Marianacci, e il mondo dei paesani che giocano a bocce non fa altro che rafforzare tutto ció. L’autore cita una statua misteriosa, un reperto archeologico, la statua del guerriero di Capestrano che nel testo riaffiora come leit motif nei ricordi dello scrittore. Ad un certo punto, però, viene citato anche un altro capestranese, colui che noi conosciamo con il nome di János Kapesztrán, eroe della lotta contro i turchi, divenuto santo e la cui statua è visibile nel Pantheon di Szeged. Chissà se lo scrittore, che è già stato lì, abbia mai visto quella statua. L’autore descrive un caratteristico divertimento intellettuale nel momento in cui troviamo il protagonista intento a sfogliare un vecchio dizionario Palazzi, e cerca il nome di Székesfehérvár che si trova vicino sia a Budapest che al Balaton. Al di là dei riferimenti geografici, qui sentiamo una similitudine con il Szindád di Krúdy, nel momento in cui l’eroe krúdiano, guardando gli orari dei treni, compie un viaggio immaginario. I capitoli 17 e 18 sono la sintesi di tutti questi riferimenti. La fioritura sul Tibisco, dapprima viene menzionata come fenomeno naturale che oggi avviene solamente sull’omonimo fiume, in seguito vi si intreccia la sublimazione dei desideri sentimentali del protagonista.

La descrizione della città di Szeged è puntuale, il lettore residente può riconoscerla nella descrizione degli alberghi, edifici, ecc. Io stesso ho letto con enorme piacere la descrizione di quell’edificio sulla cui facciata è scritta con numeri romani la data di costruzione, dal momento che, essendo il mio liceo, ci ho trascorso otto anni. Ebbene, questo è il palazzo che il protagonista vede affacciandosi dalla finestra dell’albergo. Cosa marginale, uno potrebbe obiettare, cosa c’entra questo con l’opera? Lo ammetto, niente. Ma il lettore, alla presenza nel testo da ricordi comuni viene ispirato. Nel diciottesimo capitolo, Giorgio, il protagonista del romanzo, si trova già nell’Istituto Italiano di Cultura di via Bródy Sándor, il vecchio palazzo di via Sándor, in qualità di direttore, dove aspetta la visita del presidente Árpád Göncz e consorte. L’autore sicuramente sa quanto questo palazzo, vecchia sede del Parlamento, abbia ispirato la fantasia delle opere di Mikszáth! Non tanto tempo la direzione di questo edificio era affidata a Giorgio Pressburger, scrittore italo-ungherese i cui romanzi sono conosciuti anche al pubblico ungherese. É un caso che il direttore del romanzo di Marianacci si chiami Giorgio? Il mio sospetto è che questo sia un gioco dell’autore.
Il romanzo termina con una citazione, il protagonista legge l’undicesima scena di un famoso dramma lirico, il discorso tra Adamo e Lucifero, e ne trascrive anche qualche riga. Il romanzo è cominciato con Sándor Petőfi e finisce con Imre Madách. Il romanzo di Marianacci si può apprezzare anche per il suo forte mondo intellettuale, per la sua storia scritta con una buona carica, e per essere ricca di materiale che emana grande cultura. Ma il lettore ungherese può trovare grande piacere nel leggere i riferimenti al nostro Paese, poiché un autore italiano sa di noi, parla di noi, e forse riusciamo anche a sentire che ci è affazzionato. Un piccolo popolo non può trascurare l’attenzione di quelli che gli vogliono bene. Questa è una libera citazione di un famoso scritto dell’Ignoto nel 1908.

Mihály Ilia