Domenico Cacopardo – (I fiori del Tibisco)

I FIORI DEL TIBISCO

C’è un segno singolare, specifico in questo romanzo di Dante Marianacci: è il segno di un racconto che è al contempo realtà e sogno, trasfigurazione di ricordi e di sentimenti, ma anche riproposizione. Una specie di ossimoro permanente, come la vita.
Infatti il percorso dell’autore mette insieme luoghi distanti, della memoria, e luoghi della geografia: si parla di Abruzzo, di Irlanda, di Ungheria, di Szeged, in particolare. Un complesso di immagini, di sensazioni che rende meticcia la storia, rendendola racconto non collocato in una realtà specifica, ma espressione di tante diverse realtà, e purtuttavia di tante diverse fantasie, recate nel ricordo sottile, allusivo.
Quante le immagini di questo libro che meriterebbero di essere riprese o raccontate: un viaggio, un percorso nella storia dell’uomo, sia dell’uomo Giorgio, voce narrante, che di un uomo astratto, tutti e nessuno.
C’è comunque un sicuro legame con la terra magiara, che torna nella conclusione che cita l’Umana Tragedia. C’è una storia d’amore, anzi una storia di amori, non necessariamente amori fisici, resi espliciti da un ricordo realistico e trasognato. E ci sono tanti amori brevi com’è breve un incontro casuale che suscita immagini e desideri. Una figura a me è piaciuta molto e riguarda un incontro giovanile: l’immagine della fanciulla, forse Silvia, è straordinariamente delicata, come tutto il libro, del resto.
Il romanzo, infatti, è un romanzo delicato, leggero, leggero non nel senso della leggerezza delle cose leggere, ma nel senso della sottile lievità, che tende a mascherare quello che c’è sotto, un po’ per pudore, un po’ per ritrosia, un po’ per semplice riserbo dei propri pensieri e sentimenti. Questa è una delle cifre speciali del modo di narrare di Dante Marianacci.

C’è una terra protagonista, che è l’Abruzzo. Io non è che conosca così bene l’Ungheria per poterlo sostenere, ma probabilmente è una terra che ha gli stessi sentimenti che si possono trovare nella campagna ungherese, che non conosce,  che non è stata ancora investita dalla modernità. E’ il caso di una donna giovane, il cui nome è Giovina, che è una persona strana, una bambina con caratteristiche fisiche che la fanno assomigliare ad un uomo, anche se non ha la barba. Lo scrive proprio l’autore.
Questa condizione di anomalia, di diversità di Giovina la conduce in Francia. Passano alcuni anni e torna con una sua amica, Giséle, con la sua compagna Gisèle. Torna in Abruzzo, vivono insieme, nessuno sospetta, immagina che ci sia qualcosa di diverso, di non normale in questa convivenza. Finché a Pescara Giovina non va dalla parucchiera, e Gisèle, che è una bellissima fanciulla, va in giro nel supermercato. Qui un giovanotto la guarda, fissa la propria attenzione su di lei. A questo giovanotto sembra che Gisèle scambi un’occhiata con lui, un’occhiata ammiccante e d’intesa. Allora la segue, la segue finché non tenta di abbracciarla. Compare allora Giovina, sulla porta del negozio di parrucchiere, e si consuma una tragedia: la scoperta generale dell’amore lesbico di Giovina. Un genere di amore anomalo, ma noto, un genere che non doveva prendere luce, farsi notare, rimanere nascosto nei segreti delle case.
Ci sono altre figure interessanti, come Marianna, con una sensualità vista  nella cifra propria della delicatezza, della leggerezza, nella non ridondanza di particolari che non vengono descritti, ma lasciati all’immaginazione del lettore.
Occorre rifiutare il gioco delle identificazioni che viene naturale in questi casi. L’opera di ogni autore è sicuramente biografica e autobiografica, ma non necessariamente biografica e autobiografica in modo meccanicistico.
In questo romanzo io vedo uno scrittore del Sud, uno scrittore di forti sensazioni, di forti sentimenti, che sono attenuati da una sorta di pudore, di solido senso del pudore, anche esso tipico del Sud. Si dice Abruzzo forte e gentile. La gentilezza è quella che nasconde la forza e le dà la possibilità di giocare un ruolo relazionale significativo.

C’è una pagina che mi è piaciuta moltissimo. Il protagonista Giorgio è a  scuola, dovrebbe proseguire gli studi, ma gli studi lo allontanerebbero da casa, e sono costosi. C’è una posizione diversa nella famiglia tra il padre e la madre. La madre è disponibile ma il padre è preoccupato per questo allontanamento. È una pagina molto commovente.
Come ho già detto in tutto il libro c’è il pudore di descrivere in maniera eclatante, barocca, i sentimenti.
Ma c’è anche il peso, il movimento dei sentimenti e delle idee esposti con una grande delicatezza narrativa: il lettore, tramite il ricorso alla delicatezza è naturalmente posto nella condizione di libertà. La condizione ideale per percorrere un libro pagina dopo pagina, parola dopo parola.
Questi gli aspetti fondamentali della scrittura di Dante Marianacci, che vanno colti e tutelati. Un’attività, quella del lettore de I fiori del Tibisco, che si svolge nel segno del viaggio, il viaggio proposto da uno scrittore che non scrive a sciabolate,ma con la dolce e ammaliante scrittura fine d’una penna d’oca.

Domenico Cacopardo
www.cacopardo.it