Giorgio Patrizi – (I ritorni di Odysseus)

I ritorni di Odysseus

Da molto tempo impegnato in una ricerca in poesia sempre tesa e rigorsa, Dante Marianacci raccoglie in I ritorni di Odysseus, per gli eleganti tipi delle edizioni Noubs di Chieti, un’ampia silloge di versi composti nell’arco di trenta anni, tra il 1966 e il 1996: ne deriva un vulumetto denso e ben articolato, scandito in sei sezioni che ritraggono efficacemente il divenire di un linguaggio poetico, attraverso una progressiva, costante presa di conscienza di sè.
Come sottolinea Giuseppe Conte nella precisa introduzione, il punto di partenza è quello di «un lirismo intenso, che da una parte richiama il clima dell’ermetismo italiano ma dall’altra si alimenta subito del “correlativo oggettivo” eliotiano»; giusto riconscimento delle due prospettive in atto nel libro, quella della tradizione di una scrittura preziosa ed evocativa rivitalizzata da un’intensità emotiva che evita i manierismi di scuola; e quella dell’apertura della ricerca espressiva verso un orizzione extranazionale, apertura che si sostanzia anche delle ricche esperienze fatte dall’autore a contatto con culture diverse, in primo luogo quella irlandese e quella boema. I lunghi periodi di lavoro passati da Marianacci a contatto con quei mondi –come direttore degli Istituti Italiani di Cultura a Dublino e a Praga– hanno depositato, nei suoi versi, una traccia variegata e profonda, ma contribuisce a far maturare un atteggiamento originale nei confronti dell’espressione poetica, che recepisce e fa proprie alcune caratteristiche delle letterature dei due paesi. E così da un lato affiora il senso di una innata devozione per la natura primigenia, specchio e compagna dei sentimenti degli uomini; dall’altro la memoria malinconica di una storia sofferta ma sempre rinnovata da una luce di speranza. Accanto a questi due universi –storici e simbolici– un’altra visione della natura, strettamente interecciata a quella di cui si è detto; è una natura mediterranea aspra e petrosa, che fa da eloquente scenario a situazioni esistenziali talvolta drammaticamente tese, talvolta malinconicamente rivolte al rimpianto (confuso lo sguardo sperazoso /del vecchio/si perde laggiù tra le cimase/cercando di scoprire qualcosa/che non torna ala memoria»). Ecco allora, nella prima sezione, la ricerca attorno alla natura del canto come dolore («un grido di dolore/ è il segno del dolore che lo provoca, / ma un canto di dolore è lo stesso / dolore e cosa diversa dal dolore») o ad una allegorizzazione in senso cosmico degli eventi naturali o sentimentali, con precisi ricordi montaliani («Improvviso imbruna il cielo/ impazzite s‘agitano foglie/ d’un ramo distorto/ al vento che sa di burrasca»; «Tu dici eterno ad ogni abbraccio /mentr’io, ignaro/ nell’attimo consumo l’infinito»)
La seconda sezione è nel segno di Conrad, coniugando il tema del viaggo con quella miscela di avventura e riflessione gnomica che caratterizza tanti personaggi conradiani; ma anche gli eliotiani Prufrock («Di tutto il parolaio/ che mi circondava pochi scabri versi ho salvato») e Tiresia –anch’egli chiamato a testimone della fine delle illusioni che caratterizza l’epoca accompagnano lo snodarsi del discorso poetico in direzione di una maggiore complessità di registri, tale da abbracciare la realtà in tutte le sue sfaccettature, sociali, civile e sentimentali. E proprio la poesia dedicata ad una lettera a Tiresia, accogliendo sul filo dell’ironia e della parodia una serie di riferimenti del mondo poetico–  «Eliot mi ha stancato,/ Flaubert mi ha scaricato da tempo/ del Ligure ho piene le tasche,/ Ah! Baudelaire Baudelaire/ mon semblable mon frère» –può essere considerata un po’ una cerniera che segna il passaggio tra il lirismo accesso del primo tempo fortemente simbolico, ed una discorsività via via più distesa, in direzione di un allegorismo esistenziale e metaletterario, che caratterizza qui le poesie degli anni Ottanta (come la poesia che ha per incipit un endescasillabo “narrativo”: «Muore senza misfatti un altro giorno»).

Ma continuano i viaggi da cui poter ritornare («viaggi e altri viaggi, e segni/ parole, cori forsennati, esequie/ frettoloso, moria d’immagini nei/ crepuscoli ammutoliti, nell’indifferenza/ del vento »), sempre più votati a ripercorrere i sentire della poesia e dell’arte, i linguaggi creati dagli uomini per esorcizzare il dolore, la decadenza, la morte. Un’altra lettera-appunto scritture di viaggio, a compagni di viaggo, indica con chiarezza la contraddizione che è alla base di questi percorsi; in Lettera a Seifert, la conversazione con il grande poeta boemo, fissa un registro liricamente colloquiale, privilegiato per narrare le contraddizioni di cui vive quel mondo che, come una bellisima donna capricciosa dalla doppia vita «ogni giorno diventa, occulata si trasforma/ incenerisce, faville sprizza, fino quasi a sprofondare/ nell’abisso o a toccare le vette della luce». Ora è Praga a dominare l’immaginario di Marianacci, a offrirgli le immagini e le storie per i suoi “viaggi”; l‘autore ne ricava vivissimi bozzetti: «S’agitano le carpe/ in giganteschi vasconi neri…Lenti fiocchi di neve/ appena imbiancano l’aria»; «Nella vetrina illuminata/ lo smerigliato cristallo di Boemia/ lancia segnali, ombre nasconde/ di vite in movimento un poco scheletrite» o efficacissimi raccourcis narrativi («ci seguivano ovunque, al ristorante,/ in piazza, «perfino alla toilette»; «andava muta quella piccola folla distudenti/ a un lato della piazza Venceslao…») che rievocano pagine di una storia recente in cui gli spazi di Praga si legano alle battaglie ideali alle quali questa poesia si rivolga come memoria e testimonianza .
Ma ecco che i percorsi dei viaggi e dei ritorni si intersecano in ricordi e presenze ritornanti: ora sono i cigni, che nidificano sotto un ponte, lungo la Moldava, ma che sorvolavano anche, in altre epoche, i laghi d´Italia; ora sono «i folleti e la fate» che si rincorrono, tra le pieghe della vita quotidiana, nella città boema  come nell´ “isola verde”.
Ed ancora i ritorni sono quelli delle memorie letterarie che, nel corso della raccolta, diventano via via più fitte: da Eliot a Baudelaire, da Mallarmé a Beckett, da Cavalcanti a Pascoli, da Gozzano a Montale; ed infine il riferimento alla cultura e alla gente di Praga –oltre che ad autori specifici, come Seifert–inteso come omaggio alla poesia tout court, che abita questa citta, respira negli atti dei suoi abitanti: «Qui vive la poesia,/ nei volti composti della gente/ in questo andare per le strade/ in un tempo immemorabile». Scopriamo così la vera natura di questi viaggi, che ci appaiono come itinerari della memoria o dei sentimenti  o dei risentimenti:  sono in realtà, come si addice ad un sottile conoscitore della poesia europea qual è Marianacci, viaggi nei territori della letteratura, da interrogare par riportare frammenti di verità, suggestioni, prospettive di riflessione e di studio.

Anche la vicenda complessiva del linguaggio poetico, quale emerge dai numerosi componimenti di questo volume, ci suggerisce la dinamica di un andare e tornare costante attraverso il mondo degli stili, delle immagini delle parole della poesia; I’itinerario di una ricerca che, come si è detto, saggia prima le risorse della lirica, poi quelle dell´allegoria, quindi quelle del narrare in versi  e ancora l’elegia, l’epistola. Marianacci ha a disposizione un’ampia tastiera di registri stilistici, dimostra notevole maestria nell’armonizzarli e  riesce a fondere un’intensa construzione della trama sentimentale dei suoi testi con la messa a punto di un codice espressivo ben calibrato, duttile ma robusto, variegato ma capace di ricondurre sempre a quel tono «dolcemente asseverativo», come scrive Conte, che finisce per affermarsi quale il punto di arrivo della sperimentazione in atto.
Se ci soffermiamo sulla penultima poesia della raccolta, quella che fornisce il titolo all’intero volume, I ritorni di Odysseus, ci troviamo dinanzi ad un intenso autoritratto che sintetizza il senso di tutti i viaggi narrati e cantati:
«Sei rugoso come le pietre della tua casa/ abbandonata/…Il ragazzo fatto uomo volle dire la sua storia al mondo/…/cominciò a viaggiare e a scavare con la penna tra le zolle/ del tempo e nei libri/…/Emersero strati e altri strati di parole/ e non trovammo l’oro, il verbo/…/Perché sei tornato? Mi chiedono voci lontane/ che dentro si spengono a fatica./ E il non saper rispondere è più dolce/ del piacere che ne provi». Proprio in questo contraddittorio epilogo emerge con chiarezza l´autobiografismo che costituisce il senso profondo del tema dei viaggi e dei ritorni, delle lettere e delle scritture: un‘autobografia soprattutto intellettuale che descrive la ricerca inappagata di una meta, un fine, punto d’arrivo dei viaggi e delle domande. Punto che si nega continuamente, lasciando in mano ad un Ulisse segnato dalle rughe del tempo e delle memorie i materiali scaturiti dallo scavo  incessante, i ricordi, le speranze, le tracce, i discorsi. Questo volume costituisce la fitta mappa di un itinerario che attraversa mondi poetici diversi con le medesime domande: il ritorno è solo il pretesto per ripartire, l’esistenza è solo l’occasione per continuare a sperare nel ritorno, la poesia è la voce che consente di far vivere l’immaginazione del viaggio.

Giorgio Patrizi
1997